giovedì 29 dicembre 2011

“Non al denaro, non all’amore, né al cielo”

“Non al denaro, non all’amore, né al cielo” fu un disco-evento, pubblicato da Fabrizio de Andrè nel 1971. Avevo 17 anni. Ero in seconda liceo.
Era la settimana di Pasqua, lo ricordo come ieri, ero ospite di un mio cugino, che detestavo e detesto tuttora.
Per isolarmi dall’ambiente me ne andai su in terrazza ad ascoltare la radio. “Per voi giovani”.
Era mercoledì.
Il mercoledì Carlo Massarini presentava la classifica dei dischi più venduti della settimana.
C’era stranamente “’O surdato ‘nnammurato” di Massimo Ranieri.
Non erano tempi da canzone napoletana, allora decaduta e dimenticata, eppure Massimo aveva avuto il coraggio di incidere un disco di brani classici napoletani e aveva fatto il miracolo di vendere tanto da entrare neiprimi posti.
Dopo il disco di Ranieri, Carlo Massarini annunciò al secondo posto “Non al denaro, non all’amore, né al cielo”, e un brano dal titolo “Un chimico”.
Rimasi folgorato.
Fino ad allora non avevo seguito più di tanto De Andrè. Mi sembrava che fosse apprezzato dai miei compagni di liceo più snob, che si davano arie da intellettualini, tipo “io all’Università farò Filosofia”, tipo “ma Francesco, non hai letto “Per la critica dell’economia politica”, e come fai a fare politica?”.
Quel pomeriggio di primavera passato ad ascoltare la radio, cambiò qualcosa in me. Quella canzone, quei versi, non volevano lasciare la mia mente.
Giorni dopo trovai in una libreria in Galleria Umberto a Napoli, tra i remainders, un’edizione economica dell’”Antologia di Spoon River” scontata del 50%, e così per poche lire la comprai.
Divorai quei versi in una notte.
Ma il disco, quello, non potevo permettermelo. Non ero assolutamente in condizione di avere 5400 lire, quanto costava l’album.
No, non ce le avevo.
Mi dovetti accontentare di una pessima cassetta contraffatta acquistata per 1000 lire a Forcella.

Dopo quasi 10 anni, nel 1981, appena laureato, ebbi il mio primo lavoro, a Nettuno, ed ebbi il mio primo compenso.
La prima cosa che mi comprai, prima di qualunque altra cosa, fu l’album di De Andrè: “Non al denaro, non all’amore, né al cielo”.
Da allora, quando per qualunque motivo non posso permettermi qualcosa, un bene, assistere a uno spettacolo, raggiungere un obiettivo, penso a quel disco e mi dico: “Ci sei riuscito, sia pure dopo 10 anni, con “Non al denaro, non all’amore, né al cielo”, ci riuscirai ancora".
Non desistere. Ce la farai.

Nizza, 28 dicembre 2011

giovedì 22 dicembre 2011

La signora di Borgomanero

Era bruna, occhi neri, capelli lunghi raccolti a coda. Vestiva un jeans, un maglioncino e, sopra, un giubbotto jeans.
La prima cosa che ho notato è che aveva un piercing all’orecchio destro, un anellino con una pallina metallica.
Nonostante l’aspetto e l’abbigliamento giovanile era una signora di più di 35 anni.
Non emanava fascino, non nel senso più comune del termine almeno, ma m’incuriosiva molto e non era per niente brutta, anzi, tuttaltro, era a suo modo attraente, ma solo per chi poteva davvero percepirlo.
L’imbarco sul volo da New York per Milano era stato puntualissimo. Un po’ di ressa per overbooking, ma niente di grave, alla fine tutti avevano trovato posto.
Lei mi era seduta a fianco.
Al principio non mi ero reso conto che fosse italiana.
Non aveva detto una parola e io per discrezione le avevo rivolto solo uno sguardo di saluto a cui aveva risposto con i suoi grandi occhi neri.
Durante il decollo era raccolta, con la testa bassa e lo sguardo fisso sulle sue mani poggiate sulle ginocchia.
Ho avuto l’impressione che avesse paura di volare, ma non percepivo in lei tensione, piuttosto concentrazione pensierosa, volere stare sola con se stessa.
Per due ore ogni tanto la guardavo. Lei, ferma con le mani raccolte e lo sguardo fisso su di esse.
Poi le sono caduti gli occhiali da sole che teneva poggiati sul sedile.
Li ho raccolti.
Glieli ho porti.
E allora il suo “grazie” mi ha rivelato che era italiana.
Aveva  una voce dolce un po’ acuta, che trasmetteva un immediato senso di tenerezza.
Una voce e un tono, però, che non davano spazio ad approcci di conversazione.
Intendiamoci, non era freddezza, anzi, tutt’altro, non era scostante, non so, ma ho sentito subito un senso di rispetto.
E io che sono sì freddo e scostante, ho colto subito la confidenza di quel segnale.
Dopo un’altra ora, mentre guardavo il film, ho sentito di nuovo la sua voce:
“ Mi scusi, può aiutarmi? Non mi funziona la cuffia”.
Le ho sorriso, ho guardato le sue cuffiette. Avevano entrambi gli auricolari rotti.
“Uff, ora devo aspettare che passi la hostess o chiamarla…”
Ne avevo un paio in più, non so perché.
Le ho offerto le mie.
Mi ha sorriso a sua volta, soprattutto con gli occhi.
Sono passate altre ore.
Ogni tanto mi giravo dalla sua parte, la vedevo dormire, sempre col suo giubbotto jeans addosso.
L’ho vista alzarsi per sgranchire le gambe, e tornare a sedersi.
Poi finalmente il linguaggio degli sguardi ha fatto trasparire un minimo spiraglio a comunicare, a parlare.
Mi ha guardato un impercettibile attimo in più di prima, era l’invito.
“ Tutto bene?” le ho chiesto.
“Sì, tutto bene, e lei?”
Adesso aveva bisogno e voglia di parlare, e allora mi ha raccontato del suo viaggio negli USA, del suo compagno, che ci andava spesso per lavoro, ma che per questo non era potuto rientrare con lei, dei posti dove aveva soggiornato.
Ascoltavo. Finalmente rilassata, sorrideva.
Avevamo taciuto rubando solo sguardi per sette ore.
Poi mi ha rivelato di essere un chimico industriale, di lavorare in Brianza.
Le ho detto che sono ingegnere e che anch’io ho lavorato nell’industria chimica per anni.
Si è sciolta completamente. Abbiamo continuato a chiacchierare di tutto, delle nostre vite e delle esperienze di lavoro, per molti versi comuni.
“Lavoro in Brianza, ma sono di Borgomanero”.
Borgomanero, un paese cui sono molto affezionato, che mi ricorda i primi tempi al nord, meno che trentenne, quando ci passavo nei fine settimana andando al Lago d’Orta.
“Io ho un ufficio a Novara”.
Ha subito sorriso, aveva trovato un altro elemento che ci accomunava in qualche modo.
Mentre parlavamo di futuro e di lavoro, l’aereo è atterrato senza  che quasi ce ne rendessimo conto.
Abbiamo raccolto le borse.
Io ho aiutato lei e poi mia moglie a tirare giù i bagagli.
“In bocca al lupo” le ho detto, “forse allora le nostre strade s’incroceranno…”
“ Lo spero veramente”…”buona fortuna”.

La coda per il controllo passaporti era particolarmente lunga e lenta.
Ho sentito alle mie spalle una voce:
“Buona fortuna ancora e…a presto…”
Mi sono voltato, ho visto i suoi occhi fissarmi e un ultimo sorriso.
Poi la coda ha cominciato a muoversi sempre più veloce.

(Milano, ottobre 2010)


domenica 18 dicembre 2011

La Chioma di Berenice.

(Appunti di una sera di compleanno)

“Centotrentotto gradi!”
“Come mai non parte il bruciatore?”
“Vede, ingegnere, queste caldaie sono diverse da quelle tradizionali. Adesso è acceso solo il pilota, appena la temperatura avrà raggiunto i centocinquantacinque gradi, partirà il bruciatore.”
“Questo perché deve prima riscaldarsi bene l’olio diatermico” Aggiunse il fuochista più giovane.
“Se tenta di forzare a mano la sequenza prima dei centocinquantacinque gradi, va in blocco la caldaia”.

L’odore dei compartimenti cuccette dei treni ti rimane addosso. Ti si appiccica alla pelle. Finché non fai una doccia, sembra non andare mai via.
Poi, negli anni, se per caso salendo su un treno ti sembra di risentirlo, lo riconosci subito, è l’odore dell’emigrazione, dei pendolari settimanali dal sud. Dei pendolari poveri. Gli altri non hanno il privilegio di sentirlo. Per loro c’è quello del kerosene degli aerei o della moquette dei vagoni letto.
Tornavo a casa in compagnia di un vecchio operaio siciliano e di un impiegato napoletano che lavorava in una ASL del Friuli. Ma poteva essere una sera qualunque di un ritorno o di una partenza qualunque, e con me vecchi operai dei cantieri di Castellammare di Stabia trasferiti a Monfalcone. E non parlare del Catania, ma dei nipotini lasciati con la moglie e con la figlia a Napoli. Sola ragione e necessità di lavorare pur così vecchio, pur così lontano.

“Centocinquantacinque gradi. E’ partito il bruciatore!”
“OK, l’acqua demineralizzata arriva correttamente alla centrale numero 1.
Per fare andare la pompa più grande ho dovuto by-passare la protezione dell’interruttore al quadro. Altrimenti scatta il termico e me la ferma.”
“Non voglio giochetti!-Mi intromisi- Cerchiamo una soluzione sicura.”

Alle sette di sera precise smettevo di studiare e uscivo per i vicoli bui del Pallonetto di Santa Chiara. In dieci minuti raggiungevo una sala biliardi e giocavo cento lire al flipper. Era una delle poche sale rimaste in cui una partita costava ancora venti lire.
Di solito vincevo un po’ di partite. Giocavo mezz’ora e poi tornavo a casa.
Qualche volta incontravo Peppe, che abitava al Pallonetto. Oppure Pacifico, mio amico dall’età di cinque anni, compagno di battaglie a cartellate in testa in seconda elementare.
Ma lui era in prima perché più piccolo.
Pacifico consumava le sue sere in Piazza del Gesù.
Acadeva che oltre a lui incontravo compagni di terza liceo -io ero in prima- con i quali parlavamo di guardie rosse, di Vietnam, di Movimento Studentesco, di PCI. Del futuro dopo la maturità.
Due, su tre di loro, si sarebbero iscritti a Filosofia.
Per me era presto per scegliere.

“Che rischi ci sono con il by-pass che lei ha fatto? Il quadro è protetto?”
“C’è il termico”
“E se non fa in tempo a intervenire?”
“Come non fa in tempo? E’ impossibile una simile eventualità.”
“Ma se non fa in tempo a intervenire, cosa succede?”
“Beh, in tal caso si fermano gli ausiliari.”
“E si blocca la centrale 2!”
“Anche la 1 se è per questo!”
“Allora il by-pass non è praticabile come soluzione.” Dissi.
“A che cosa serve questo interruttore da quaranta Ampere?” Chiesi.
“E’ per una presa, ma si usa poco.”

Guardavo il cielo stellato da una terrazza sulle mura di Saint Paul De Vance. Davanti a me c’era il dolce degradare delle colline verso il mare. Nell’aria della sera, fresca, profumata di mare e di pineta, scrutavo il cielo, illudendomi di cercare la Chioma di Berenice.
In verità non ero per niente sicuro che in quella stagione dell’anno -era l’inizio della primavera- fosse visibile la costellazione alle nostre latitudini, ma mi piaceva immaginare che lo fosse. E la cercavo.
Sforzando molto la vista e la mia fantasia, infine la vedevo. E ripetevo a memoria i versi di Catullo e di Foscolo. Di quelli di Callimaco solo frammenti.
Così passavano i minuti.
Tutte le sere in cui il cielo era terso.
Lungo la strada un rigagnolo d’acqua scorreva per terra riflettendo le luci.
Più che un sogno era stato un progetto costruito lungo tutti gli anni della mia vita. Ritirarmi in Provenza era stato il mio obiettivo finale. Dopo gli studi, il lavoro, la carriera, i successi, gli insuccessi, l’amore, la famiglia.

“Allora possiamo usare questo interruttore per la pompa, così siamo sicuri. Procedete!”


giovedì 15 dicembre 2011

Un poeta.

Non c’era  posto che le piacesse di più al mondo.
La Biblioteca statale era situata in un vecchio edificio a cui si accedeva tramite un’imponente rampa di scale.
Mentre saliva quelle scale Sofia sentiva di lasciare indietro tutti i pensieri e le preoccupazioni.
Vittima di una madre insoddisfatta e nevrotica, Sofia non trovava nessun gusto nel vivere. Una ragazza di 16 anni appena compiuti, tutti trascorsi a scusarsi di esistere.
Ma in Biblioteca aveva trovato un’altra vita. Un rifugio nel quale poteva dimenticarsi di se stessa ed immergersi nella storia di un altro, vissuto, magari, cento anni prima, oppure partorito dall’immaginazione di chissà chi.
Nessuno la braccava quando era in Biblioteca, nessuno le urlava che doveva darsi da fare. E allora, non appena poteva,  saliva l’ampia scalinata, attraversava il pesante portone e s’infilava in quel meraviglioso mondo, enorme e silenzioso, dove ogni libro aveva un suo posto. E anche lei.
Vi aveva notato un giorno, per caso, un uomo imponente, alto e robusto, di circa settant’anni, decisamente ben portati. Indossava un doppio petto nero. Si muoveva  con il portamento di un quarantenne. I capelli erano nerissimi, nonostante l’età. Un paio d’occhiali con la montatura nera e le folte sopracciglia, nere anch’esse, davano a quel viso legnoso un  aspetto da vecchio contadino.
Compariva tutti i mercoledì. Ritirava due o tre testi. E li studiava.
Talvolta chiudeva il libro e lo poggiava sugli altri, formando una piccola pila. Lentamente estraeva dalla tasca della giacca una copia dell’Espresso e leggeva con attenzione, sottolineando con una vecchia matita rosso-blu da insegnante i passi notevoli. Poi riponeva in tasca il giornale, e riprendeva il libro.
Sofia restava ore a guardare l’uomo dai lineamenti antichi, forse bello un tempo, prendere appunti su piccoli fogli che poi piegava con cura e metteva in tasca.
Un mercoledì finalmente chiese alla bibliotecaria chi fosse.
“Un poeta”.