venerdì 24 febbraio 2012

Una voce che ride nella neve

Montpellier

Cinque

Si erano fatte le sei .
L’ufficio di Edoardo era a solo un quarto d’ora di macchina dal suo.
Silvana in tutta fretta mise in ordine la scrivania, andò in bagno, chiuse l’ufficio.
Arrivò sotto la prefettura, dove lavorava Edoardo, alle sei e mezza.
Edoardo era lì, davanti al portone.

“Ma che fine hai fatto? Ti ho chiamata almeno due volte in ufficio e quattro sul cellulare. Roberta mi ha balbettato di un tuo collega italiano, di una pratica, ma non sapeva niente. E il cellulare era spento.”

Prese posto in macchina a fianco a Silvana.
Lei lo aggredì:

“Senti Edoardo, sentimi bene. Io sono stufa di tenerti sempre appiccicato!
Sono stufa di questa oppressione.
Sono stufa di ricevere decine di tue telefonate al giorno:
-          Silvana, che stai facendo? Stai lavorando con Roberta? Sei a pranzo? Quando passi a prendermi stasera?-
Ma quando fai tardi tu, ti ho mai chiamato?
Ti ho mai chiesto qualcosa?
Quante volte ti chiamo in un giorno?
E quante volte mi chiami tu?
Certe volte vorrei scappare lontano da sola. Sola!
E basta controllarmi perfino su come educo le ragazze. Io sono un’ottima madre capito?
Capito?”

Edoardo rimase annichilito dalla scenata di Silvana. Lui soffriva moltissimo le sue collere, per fortuna molto rare. Ci stava male, molto male.
Aveva una devozione infinita per la sua donna.
Per Silvana.

“ Perdonami  Silvana. Credimi, non volevo controllarti, lo sai. Ero solo preoccupato del tuo ritardo. Scusami, ti prego.”

Silvana restò in silenzio concentrata a guidare.
Non scambiarono più una parola fino a casa.
Parcheggiarono.
Salirono in ascensore.
Silvana aprì la porta.
Le ragazze erano all’università, si sarebbero ritirate non prima delle otto.

Con un impeto improvviso abbracciò Edoardo e lo baciò, lo baciò con ferocia stringendolo fino a togliergli il fiato.
Lo trascinò per mano in camera da letto.
Lo spogliò.
Si spogliò.
Lo spinse sul letto e pretese l’amore.
Lo pretese violento e ricambiò con violenza, con un energia da farsi male.
Da fare male.
In quel momento era quello che desiderava  da morire.
Per non pensare.

Rimasero spossati. Stesi a letto, sul fianco.
Lei gli dava le spalle.
Lui era stretto a lei da dietro.
Le teneva le mani sui fianchi, le toccava i seni.
Lei sentiva altre mani. Altre dita, morbide come il velluto.
Altre labbra.
Gli occhi le si bagnarono di lacrime.
Edoardo percepì qualcosa.

“Che c’è Silvana?”
“E’ l’emozione. E’ stato bello, Edoardo. E’ stata una bella giornata.
Ho avuto in dono momenti che non dimenticherò mai.
Ora però è meglio che ci alziamo. Stanno per arrivare le ragazze.”

Edoardo non osò parlare.

La legava a Edoardo un affetto infinito. Senza di lui la vita non aveva senso. Senza di lui si sentiva di morire.
Ma quando Giorgio non dava segni di sé, perché all’estero o perché impegnato con il lavoro, lei si sentiva mancare il terreno da sotto i piedi.
Senza Edoardo non poteva vivere, ma senza Giorgio era perduta.

Giorgio intanto era tornato al Thalassa.
Passò la notte lì.

Il mattino dopo fece colazione sulla terrazza guardando il mare.
Il tempo era cambiato. Il cielo si era fatto grigio.
E grigia era la superficie del mare.
Rimase a lungo seduto a pensare. Gli occhi fissi sull’orizzonte.

Verso le due, ripartì in macchina per rientrare a Torino.

Suonò il telefono.
Il cellulare.
Vibrò e suonò.
Silvana era nel suo ufficio, come sempre a quell’ora.
Aprì il cassetto.
Prese il telefonino.
Pigiò il pulsantino verde.

“Ciao, sono in macchina. Sto tornando a Torino.Ti disturbo?”
“Tu non mi disturbi mai”.
“Ti va di parlare? Mi fai compagnia per un po’?”
“Certo. Aspetta, chiudo la porta.”