mercoledì 30 maggio 2012

Appunti di giorni passati. Un romanzo d'appendice.


Sette.

Feci una doccia e andai a letto. Per rilassarmi e concentrare la mente su pensieri positivi presi il De Bello Gallico e mi misi a leggere i passi che descrivono la battaglia di Alesia.
Nei momenti difficili leggevo spesso Cesare. Aveva e ha il potere di caricarmi, anche di odio, se necessario, e ridarmi serenità, fermezza e fiducia in me stesso.
E freddezza.
Nel dormiveglia pensando alla giornata, alla molletta, al barone e agli anni della mia adolescenza, mi tornò in mente un pomeriggio d’inverno, all’uscita dal liceo. Degli universitari più grandi di noi, io ero in prima, avevo 16 anni, erano venuti a sfottere le ragazze. Non so, forse fu un’occhiata sbagliata, o forse avrò cercato di difendere una mia compagna, non ricordo, finì che uno di quelli mi aggredì, avevo imparato a difendermi e reagii, comparve Aitano cap’é ‘mbomba, davanti alla scuola, mi riconobbe, si buttò nella mischia, spaccò il naso al mio aggressore e fece saltare due denti al suo compare. Li cacciammo, pesti e sanguinanti.
Da quando ero al liceo non mi capitava più di incontrare Aitano, che vendeva sigarette di contrabbando al Sedile di Porto, detto Cap’é ‘mbomba per il suo capoccione e perché metteva KO gli avversari con la cosiddetta “capat’é primma”, una testata improvvisa, secca, velocissima, a sorpresa, che aveva un impatto devastante sul volto del malcapitato, che ne usciva quasi sempre sanguinante e con il setto nasale spaccato.

domenica 13 maggio 2012

Appunti di giorni passati. Un romanzo d'appendice.


Sei.

Era successo una sera. Avevamo appena finito una partita del torneo di calcio che ogni anno l’Azione Cattolica di Santa Chiara organizzava tra i ragazzi del quartiere.
Avevo 12 anni. Giocavo in una squadra che avevamo chiamato “Artigianedile”, dall’insegna di una bottega di Via Carrozzieri alla Posta. Ci aveva divertito l’idea di prendere un nome a caso.
I nostri avversari erano dei poco di buono del Pallonetto Santa Chiara.
Era stata una partita molto scorretta. Ci avevano riempito di calci, gomitate, spallate e sgambetti. Nonostante tutto, avevamo vinto 2 a 1. Io avevo fatto un’entrata regolare in scivolata nell’area avversaria e avevo rubato la palla a un difensore. Lui si era buttato a terra, ma si era beccato l’ammonizione per simulazione. Da quell’azione era venuto il goal della nostra vittoria.
Tornavo verso casa salendo via Santa Chiara, era ormai buio. Dietro di me, a qualche decina di metri camminavano cinque ragazzi della squadra che avevamo battuto. Sentivo il loro vociare.
Camminavo piano, mi facevano male le gambe. Poco a poco mi raggiunsero. All’improvviso tre di loro mi superarono, mi sentii afferrare da dietro dagli altri due. I tre si girarono, mi vennero addosso e cominciarono a prendermi a pugni e a schiaffi. Strattonai per liberarmi e reagire, ma erano troppi. Dopo avermi riempito di pugni, mi gettarono a terra e mi presero a calci.
Andandosene, mi urlò quello a cui avevo tolto la palla:

“Accussì te’mpare. Avimm' perzo pe ‘mmeza toia. Strunzo!”

Restai a terra dolorante. Stavo cercando di rialzarmi, quando sentii un qualcuno avvicinarsi. Si chinò e mi sollevò la testa delicatamente.
Era ‘o bbarone.

“Ué, bbaro’…” dissi a fatica.

“Calmate, ‘o frà, rispira chiano, nunn’è nniente, é sul’acchiappato ‘na paliata.
Cinch’erano troppi. Ma nun te preoccupà, é 'ttenimme fatte. E’ ssule quistione d’é  'cchiappà a uno a uno, à ssule.
Si l’avessero fatto a mmé, s’à vedevano cu cchesta.”

E mi mostrò la “molletta”. Fu la prima volta che vidi il suo coltello a serramanico. Quello che adesso era nel palmo della mia mano.

“ ‘O fra’, t’aggi’à ‘mparà a avé à cche ffà cu chella ggente.”

O’ bbarone abitava ai Banchi Nuovi, nel mio quartiere. Non ho mai saputo il suo nome, era ‘o bbarone e basta. Lo conoscevo da quando avevo sei anni. Aveva sempre fatto il ladruncolo. Rubacchiava dalle bancarelle, da piccolo. Poi era passato a rubare nelle auto. Tutto quello che per distrazione i proprietari potessero aver dimenticato: soldi, sigarette, preservativi, crick, qualche volta la ruota di scorta. Se andava bene, lo stereo.
Così, mi insegnò a difendermi, a fare “a mazzate”, a dare capate “é primma”, e infine a usare il coltello. Mi insegnò a usarlo per intimidire l’avversario non troppo pericoloso, a colpire per primo l’avversario pericoloso, a colpire brutto l’avversario infame, più grosso e meglio armato.
Per fortuna non mi erano mai serviti i suoi insegnamenti in scontri fisici. Era bastato avere appreso l’attitudine a farsi rispettare per trasmettere un forte messaggio deterrente, e questo in più occasioni, anche da adulto e in età matura.
Imparai anche che con certa gente devi colpire per primo, un solo colpo, violentissimo, unico, risolutivo, one shot, come dicono gli americani, e che se non colpisci tu, è pura illusione pensare che difendendosi, alla lunga, si scoraggi il nemico e lo si neutralizzi.

‘O bbarone, Aitano cap’é mbomba, contiguità di amicizie. Ragazzi border line, come si dice adesso, ma leali e generosi. Pronti a prendere mazzate per difendere un amico.
Guardavo la molletta nel palmo della mano, pensavo a loro, ai miei anni di ragazzo.
Poi andai al liceo, ancora nel quartiere, poi all’università, poi via, all’estero.
E ora eccolo qua il funzionario della Commissione Europea, raffinato, colto, fine, “signore”, dalle origini napoletane. Con la fama di duro contro i crimini ambientali e il traffico di rifiuti.
Avevo bene in mente quello che mi aveva rivelato il capitano Chébel. E capivo benissimo cosa voleva dire. Certo, la protezione a distanza dei Servizi, certo, più avanti, la scorta, ma sapevo perfettamente verso quale destino avevo cominciato a viaggiare. Mi confortava ancora non correre rischi di ricatti o di vendette trasversali contro persone a me care. Semplicemente perché non ne avevo più e i figli erano dall’altra parte del mondo.
Se ero finito nel mirino di organizzazioni camorristiche, non avevo scampo.
Facevo queste riflessioni con calma e freddezza, come se riguardassero un'altra persona.
Guardai ancora una volta la molletta nel palmo della mano.
Ci giocherellavo, la feci saltellare.
Feci scattare la lama. Lucida, brillante.
La impugnai come mi aveva insegnato ‘o bbarone. Rinserrai il coltello.
Lo riposi nel cassetto, sotto le camicie.

(continua)

giovedì 10 maggio 2012

Appunti di giorni passati. Un romanzo d'appendice.


Cinque.

Discutemmo una ventina di minuti. Mi raccontò in maniera un po’ più dettagliata quello che si stava muovendo nel mondo del traffico di rifiuti e i pericoli che me ne derivavano. Mi disse che per il momento la mia situazione non destava ancora preoccupazioni, ché agenti dei servizi francesi mi tenevano sotto controllo con discrezione.
Mi lasciò il numero di un cellulare italiano, raccomandandomi di chiamare nel caso percepissi anche la minima anomalia nella routine che si svolgeva intorno a me.

“Au revoir monsieur Toscano. Ci ritroveremo in Italia probabilmente. E mi saluti il capitano Claudia Somma quando la vedrà”.

Finii di cenare, con calma. Pensieri e ricordi cominciavano a invadermi la mente. Non ero preoccupato, né agitato, la cosa più importante è che non avevo nessuna persona cara, in Italia o in Europa, per la cui sicurezza potessi temere. I miei figli erano uno a Boston, l’altro in Guadalupa, abbastanza lontani e in mondi, dove difficilmente poteva concretizzarsi una qualche forma d’intimidazione trasversale. In ogni caso li avrei avvertiti. Sapevano il fatto loro.
Tornai in albergo a piedi, passeggiando per le vie di Parigi fino a Boulevard Saint Michel. Alloggiavo in un alberghetto proprio di fronte alla Sorbona, ci dormivo dai tempi in cui ero studente, era piccolo e accogliente, con la sua atmosfera anni ‘70, frequentato da studenti, professori e ricercatori. Mi trovavo bene, mi sentivo a casa e così, ancora adesso che ero un alto funzionario europeo, continuavo ad alloggiarvi.
Come sempre, come tutte le sere dalla prima che passai a Parigi quarant’anni fa, mi fermai a prendere un caffè in un locale di Boulevard Saint Michel.
Poi salii in camera.
Non so perché ma la prima cosa che feci fu aprire un cassetto, sollevare le magliette, guardare e toccare il coltello a serramanico, “ ‘a mulletta”, che portavo sempre con me da quando me l’aveva lasciata o’ bbarone, l’amico mio ladro di macchine, la sera che morì accoltellato in Via Santa Chiara, a Napoli.
Aveva rubato uno stereo dalla macchina sbagliata, che apparteneva alla persona sbagliata. Quella domenica sera il figlio di don Ciccio lo aspettò all’angolo tra “o’ vich'è segatura” e Santa Chiara. O’ bbarone non fece in tempo ad aprire bocca, né a difendersi, fu afferrato per le spalle, fatto girare e accoltellato all’addome con un solo colpo profondo e mortale. Mi trovai a passare per caso quella sera, ero andato a comprare le sigarette a mio padre. All’angolo tra Santa Chiara e i Banchi Nuovi c’era l’unico tabaccaio aperto la domenica sera.
Così lo vidi, lo sentii rantolare, a terra con il sangue che scorreva e il viso coperto di sputi, ultimo sfregio del figlio di don Ciccio. Era ancora vivo, corsi in tabaccheria a chiamare un’ambulanza, poi gli tornai vicino, si era fermata qualche altra persona, Santa Chiara era quasi deserta la domenica sera, e pioveva. Mi fece segno di avvicinarmi. Mi chinai su di lui. Gli sollevai la testa. Riuscì a muovere una mano mi poggiò il pugno chiuso nel palmo della mia e mi diede la molletta che vi teneva stretta, il coltello:

“Annascunnatella, tienela tu, Friarié. T…ie..ne..la..tu.”

Conoscevo quella “molletta”, o’ bbarone mi aveva insegnato ad usare il coltello a serramanico quando eravamo bambini. Mi aveva insegnato a difendermi dai ragazzi delle bande del quartiere, “d’é guagliun'é vasci’o’ puorto”, e da quelli di Santa Chiara.
Io ero dei Banchi Nuovi.

(continua)