Questa è una favola.
Una favola accaduta veramente.
In un mio cantiere.
Un giorno di molti anni fa, quando la parola “immigrazione”
non era così diffusa in Italia, e l’immigrazione era ancora un fenomeno
trascurabile, in un cantiere, a Milano, c’erano da abbattere dei vecchi muri in
mattoni.
Era luglio. Il sole picchiava come sa picchiare a Milano,
non a picco, ma con un calore fortissimo, diffuso nell’aria umida, che ti
avvolge, e ti succhia le forze.
Il geometra, un giovane pugliese, stronzo ma bravo, che
sapeva il fatto suo, divise il lavoro in due lotti: una parte di muro la affidò
a un muratore bergamasco, un’altra di dimensioni equivalenti, la affidò a un
operaio marocchino, che lavorava con lui da anni.
Prima di sera i due muri dovevano essere abbattuti
completamente.
Il bergamasco si rimboccò le maniche e, armato di piccone,
cominciò a sferrare colpi violentissimi, diretti, contro i mattoni, che
all’inizio sembravano appena scalfirsi.
Sudava il muratore. Sudava e lavorava sodo con il piccone.
Grondava di sudore. Ma non si fermava.
Ogni colpo era più forte del precedente.
Ma a stento veniva giù qualche mattone.
Il marocchino era seduto all’ombra del muro e fumava. Aveva
una camicia bianca di cotone, le maniche appena rivoltate, giusto al gomito.
E fumava.
Il compagno di lavoro lo guardava brutto.
Dopo un’ora cominciò a insultarlo. Prima in bergamasco, poi
in Italiano, perché capisse, quello sfaticato, venuto fin qui dal suo paese di
beduini a rubare il mestiere a noi muratori italiani e a rubare lo stipendio.
Si fece l’ora della pausa per la colazione.
Il bergamasco venne a mangiare in mensa, incontrò il
geometra e gli raccontò in maniera molto colorita di come procedeva il lavoro e
di quello scansafatiche di uno zulù.
Il marocchino non poteva permettersi il costo della mensa. Sempre
seduto all’ombra del muro, apri una vaschetta di plastica, rimediata, che era
stata, in un’altra vita, un contenitore di gelato e cominciò a mangiare
lentamente del taboulè alla menta (lo so, perché passando, lo vidi e,
incuriosito, gli chiesi cosa stesse mangiando).
Il geometra, alle accuse, meglio dire alla delazione, del
bergamasco, non batté ciglio. Fece un sorriso maligno e gli offrì un caffè,
dopo mangiato.
Ripresero il lavoro. Mancavano ormai tre ore e il muratore
con il piccone, facendo una fatica disumana, era riuscito ad abbattere solo un
terzo del suo muro.
Il muratore marocchino si alzò, finalmente, muto, la faccia
scura, rugosa, intagliata nel legno, illuminata dal sole.
Poco distante c’era una lunga trave di acciaio, snella ma
resistente.
E dei massi.
Lentamente sollevò la trave. Ne infilò un estremo in una
fenditura alla base del muro. Ne pose un masso sotto, a circa un terzo della
lunghezza e, portatosi all’altra estremità, con un solo colpo, forte, poderoso,
facendo leva, lo abbatté. Poi, sempre lentamente, si portò dalla parte del bergamasco
e ripeté l’operazione, abbattendo anche il suo muro con un solo colpo.
Alle 17 finì la giornata di lavoro.
Le uniche parole che disse il marocchino furono:
“Buonasera geometra, a domani”.
“Buonasera “ rispose il geometra conservando il suo sorriso
maligno.
Se queste parole possono aver offeso gli amici bergamaschi
che mi leggono, parafrasando Shakespeare dico loro: pensate che sia tutta una
favola.