lunedì 31 dicembre 2012

Strada Statale 268


Uno.

I negozi del paese cominciavano a spegnere le luci.
Lungo la Strada Nuova poche persone si affrettavano a tornare a casa.
Era buio.
Il buio profondo del cielo d’inverno senza luna.
Il vento di terra spazzava l’aria, la caricava di elettricità.
Le immagini, pur illuminate solo dalla luce dei lampioni, erano nitidissime.
Mi piaceva sentire il freddo in faccia e lasciarmi riempire le narici dal profumo della montagna.
Erano le sette.

Quella sera ero in turno alla stazione di servizio.
Il turno della notte di Natale.


Due.


La stazione di servizio era al vertice della confluenza tra la “Strada nuova” e la statale 268. Del Vesuvio.
La piazzola era triangolare e vi si accedeva da entrambe le strade.
Nel bar c’era Battista al banco e qualche amico a chiacchierare e a bere un caffè all’anice prima di tornare a casa per il cenone.
Su un tavolino di fianco al bancone un alberello di Natale lampeggiava con le sue lucine colorate.
Di lato, lungo la vetrata che dava sulla Strada Nuova, c’era un juke box acceso.
Suonava un brano che s’intitolava “Trenta, sessanta, novanta”.
Ero arrivato in moto, la moto di Battista.
A un centinaio di metri dalla stazione di servizio un folto capannello occupava la Strada Nuova ed ero stato costretto a fermarmi.
Una stufa verticale a gas, a bombola, accesa lì, in mezzo alla strada, aveva attirato la mia attenzione.
Serviva a dare l’illusione di un po’ di tepore in quella notte di vigilia così fredda.
Chiesi a don Vincenzo, un signore che conoscevo, cosa fosse successo.
Mi rispose in napoletano:

“Oi Fra’, che aria é neve. Ma nun saje niente? E’ muort’ mast’Eduardo.”

Pensai che aveva scelto una fredda notte senza luna, proprio la vigilia di Natale, il vecchio capomastro, per la sua veglia funebre.
Superai l’assembramento portando la moto a mano, a motore spento.


Salutai Battista, ci baciammo.

“Cià Fra’” mi sussurrò.

“Cià Batti’, comm’è gghiut’à jurnata?”

“Fin’à vij’è ccinche ce stev’ nu bellu movimento, mò però stann’accumminciann’à turnà tutte quant’ é ccase llore . Nun ce sta cchiù quasi nisciuno mmiez’a via.
E’ Nnatal’oi Fra’”.

“Cià Bbarò”, feci, rivolto a Gnicchi Gnacco che beveva l’anice, al banco, dopo il caffè corretto”.

Mi rispose con un cenno della mano e il suo sorriso da scimmia.

Gnicchi Gnacco, detto ‘o Bbarone, era un ladro di auto.
In genere rubava, su richiesta, autoradio, accessori, il treno di gomme e, raramente, su particolari commissioni, l’auto intera.
Per sé teneva soldi e valori quando li trovava, dimenticati dai proprietari e dai passeggeri nelle vetture.
Non parlava quasi mai, rispondeva a gesti e con smorfie del viso, simili a sorrisi. Per questo lo chiamavamo anche ‘a scigna, la scimmia.
Era uscito dall’ospedale da poche settimane. Era stato accoltellato all’addome da un automobilista che lo aveva sorpreso a scassinare la sua macchina.
Aveva fatto l’errore di sconfinare a San Giuseppe Vesuviano. Senza un palo. In un quartiere che non conosceva bene.
Era sempre indebitato e sempre con brutta gente Gnicchi Gnacco. E quella sera dovette scegliere tra la coltellata probabile di un automobilista e una rivoltellata alle gambe, sicura, dai comparielli del suo creditore.
Era un amico e un bravo ragazzo. Ci conoscevamo dalle elementari.

Dopo il cenno con la mano, incredibilmente mi parlò:

“Friarié”,
a volte mi chiamava così e ho sempre pensato che fosse un epiteto dispregiativo, ero uno dei suoi pochi amici onesti,
“t’aggio vist’aiere ca accumpagnav’ à Silvana, a cumpagna toja é Puortici.
Statt’attient’ Friarié, Mariano, o’ nnammurat’è nu bravo guaglione e n’amico. Nun t’atteggià troppo e nun te n’apprufittà é ll’amicizia”

Ora, c’era una reciproca simpatia tra me e Silvana. Era la mia compagna di banco e il pomeriggio a volte la invitavo a studiare da me, al ritorno dal Liceo, da Napoli.
Era una bella ragazza, minuta, lunghi capelli castani, morbidi di seta, con degli occhi splendidi, luminosissimi.
Mi piaceva, certo.
Quando le stavo vicino, tenendola per mano al ritorno da scuola, o quando, seduti in camera mia facevamo insieme la versione di greco, le teste chine sul vocabolario, il profumo degli aliti che si scambiavano caldi, e i suoi occhi grandi, sgranati, che mi fissavano ansiosi,  una sensazione di estasi pervadeva il mio corpo e un germe di felicità si svelava nella mia anima.


Tre.


Ne ero turbato, ma non ne ero innamorato, o almeno non ne avevo la percezione.
Provavo un piacere immenso quando ero con lei e le giornate, mi erano lievi, belle.

“Baro’, ma  pecché nun te faje è cazzi tuoje? Staje vevenno, e bbive e nun romper’o cazz’! Silvana e io jamm’a scola ‘nsieme, sturiamm’ nsieme, è normale.”

“Vabbuò, oi’ Fra’, t’aggio sul’avvisato.
Guagliù, me ne vac’, auguri ”.

In quel momento si sentirono fermarsi due moto sulla piazzola.
Entrarono Ninnone e ‘Aitano cap’é mbomba, due vigili urbani del paese:

“Barò buonasera e auguri.
Addò vaje?”

Era Aitano cap’é mbomba a parlare, rivolto a Gnicchi Gnacco.

“Che r’è Aità, nun pozz’fa dduje passi primm’é turnà a casa mia?”

“Bbaro’, stasera nunn’è serata. Sto ‘ncazzato, è viggilia e io torn’a casa all’unnice. Nun fa strunzate, verimm’é nun passà a nott’é Natale ‘n’ galera, pecché,  si te ‘ncoccio, primm’ te spacc’à capa, po’ te port’a quistura senza passà p’o’ spitale.”

“E che cazz’, staje semp’é ‘na manera?
E’ Natale Aità. Auguri, nun te preoccupà. Stasera nunn’arrobb’,è festa pure pe mmé.”

Gnicchi Gnacco uscì.

Aitano cap’è mbomba era chiamato così per il suo aspetto tarchiato e con il capoccione, ma soprattutto perché da ragazzo, quando si azzuffava, stendeva l’avversario con una capata “é primma”, improvvisa.
La sua famiglia aveva un bancariello ben avviato di sigarette di contrabbando, che riforniva tutto il paese. E anche lui le aveva vendute fino a quando, vinto il concorso, era entrato nella Polizia urbana
Una volta, quando non era ancora vigile urbano, mi aveva difeso riempiendo di botte e capate tre tamarri che cercavano la rissa.
Ninnone, il suo nome era Vincenzo, era un lontano cugino di mio padre, per parte di nonna, era un graduato, con lui non avevo molta confidenza.

Battista andò al juke box e mise un disco, si intitolava “Flash”.
Era un brano solo strumentale, nuovo, molto mosso, trasmetteva energia.
Pensavo a Silvana, alla sua cena di Natale, a quando l’avrei rivista a scuola, dopo l’Epifania.
E sorridevo.

“Ciccio! Staje durmenn’? Vuò fà benzin’é mmotociclette! O ce vuò fa passà Natale ccà cu tté?”

Era Ninnone.

Rifornii le due moto, mi pagarono.
Ci abbracciammo e baciammo con tutti e due augurandoci reciprocamente buon Natale.
Misero in moto. 
Ancora un paio d’ore e poi sarebbero stati a casa per il cenone.
Faceva molto freddo e il vento era diventato più violento.
Tenevo addosso un giaccone americano pesante comprato a Pugliano, a Resina, tremavo.
Restai fuori a respirare ancora il profumo dell’aria di montagna.
 Alzai gli occhi, nel buio si intravedeva il profilo della cima del Monte Somma, che nascondeva alla vista il Vesuvio.
La neve che lo copriva emetteva una luce opalescente, spettrale.
Mi accesi una nazionale.
Era il massimo che potevo permettermi.
Guardavo la Strada nuova e, in fondo, il capannello che si faceva sempre meno numeroso.
Guardavo la statale, dalle luci più fioche. Completamente vuota a perdita d’occhio.

Andavo alla pompa di benzina il sabato e la domenica, quando era turno di apertura. Ci lavorava Battista, l’amico mio, e lui aveva parlato con il padrone, che mi conosceva come un bravo ragazzo e fu lieto di darmi quel lavoro.
Mi ero offerto io di fare il turno di notte.
L’ipocrita felicità forzata di queste ricorrenze mi deprimeva: Natale, e ancora di più san Silvestro con i suoi spumanti o champagne, gli abbracci e i suoi botti.
Mia zia Carmela, che abitava a due passi, mi fece sapere che all’ora del cenone mi avrebbe fatto portare gli spaghetti a vongole appena fatti e un po’ di baccalà fritto per secondo.
Il panettone lo avevo lì, al bar della stazione di servizio.
Non bevevo vino allora.

Quattro.

Mi passò per la mente l’ultimo giorno prima delle vacanze, all’uscita di scuola.
Silvana era più avanti, le ragazze uscivano cinque minuti prima, Peppe, un altro mio compagno di classe, scendeva le scale a fianco a me.
Ridacchiando mi disse:

“E’ inutile che fai, non t’illudere, Silvana è di Mariano.”

Questo Mariano neppure lo conoscevo, lo avevo solo visto in una fotografia che Silvana aveva mostrato a me e ad Angela, una nostra compagna, anche lei di Portici.
Me ne aveva parlato qualche volta, al ritorno da scuola. Era di tre anni più grande di noi, studiava Architettura e veniva dall’istituto tecnico.
Quando parlava di lui, notavo, o mi piaceva notare, o volevo notare, che Silvana lo faceva non dico con freddezza, ma certo non con l’emozione con la quale si parla del ragazzo che si ama:  i suoi occhi, sempre luminosissimi, rimanevano distratti e raccontava di lui come se parlasse di cose ordinarie, tipo i suoi rapporti con sua madre o con sua sorella.
Si entusiasmava molto di più quando parlava delle vacanze o di un sette preso alla versione di Greco.
Un giorno alla lettura dei voti voti della versione, lei sette, io otto, mi si buttò addosso nel mio banco e mi baciò, davanti a tutti, sotto lo sguardo imbarazzato del professore.
Poi lo guardò sorridendo e gli disse,

“Mi scusi professore, non voleva essere un gesto sconveniente il mio. E’ che abbiamo studiato insieme.”

E si voltò ancora verso di me fissandomi con i suoi occhi che brillavano.
Fu l’unica volta che mi baciò.
Non mi ero mai fatto illusioni. Non me ne facevo.
Nessuno si era mai messo con una compagna di classe. Le ragazze preferivano i ragazzi più grandi e io sapevo che per me qualunque partita era persa.
Ma gli occhi di Silvana, la sua voce, il profumo dei suoi capelli, del suo corpo, quel lievissimo e discreto sentore di sudore i pomeriggi estivi di fine anno scolastico, a casa mia, più raramente a casa sua, sono ricordi e sensazioni che porterò con me tutta la vita.
Fu lei la prima volta a chiedermi se volevamo studiare insieme. In Latino e Greco faceva più fatica di me e mi confessò che le avrebbe fatto piacere se avessi accettato.
Ho sempre voluto pensare che lo fece solo perché insieme si studia meglio.
Angela, un giorno mi sorprese in classe che le cingevo la spalla con il braccio, leggendo insieme dallo stesso libro, i volti e le bocche vicinissimi.
Mi disse velenosa:

“Franco, non ti frusciare. E stai attento, anche i professori si stanno accorgendo di voi.”

Non mi frusciavo. Non mi ero mai frusciato. Però davvero, una mattina, uscendo dall’aula dopo la lezione, la professoressa di chimica mi incrociò nel corridoi e mi chiese:

“R. mi scusi l’indiscrezione, ma lei e Silvana M. state insieme? Siete molto belli nel vostro banco.”

Il  nostro banco era in prima fila. Proprio di fronte alla cattedra.

Quando capitava che non studiavamo insieme e ognuno tornava a casa sua, appena finivo di mangiare, arrivava la telefonata di Silvana.
E ci richiamavamo più e più volte.
Parlavamo per ore. Confrontavamo le versioni e lei mi parlava sé, della sua giornata, di sua sorella, di che musica ascoltare, di tante cose.
Mai di Mariano.
La sua voce cristallina e melodiosa era dolcissima.

“Fra’ se so’ fatt’é ddieci. Io me ne vac’a casa.”

Battista mi abbracciò. Ci baciammo.

“Auguri Batti’. Salutam’a tutte quant’, e dà nu vas’a Rosetta pe mmé.”

Salì sulla moto e si avviò.

Mentre lo guardavo allontanarsi lungo la strada nuova, nella piazzola si fermò un pullman della Vesuviana. Era l’ultimo pullman da Napoli. Ne scese l’autista e i soli tre viaggiatori.
Entrarono, chiesero un caffè e andarono alla toilette.
Gli preparai i caffè, scambiammo quattro parole.
Erano tre addetti alle pulizie di un palazzo di uffici a Napoli. Avevano finito tardi e tornavano giusto in tempo per il cenone.
La corriera ripartì.

Arrivò Anna con i piatti caldi degli spaghetti e del baccalà ben stretti in un fagotto fatto con una tovaglia rossa.
La ringraziai. Ringraziai zia Carmela. La baciai raccomandandole di rientrare subito a casa, ché faceva freddo.

Alle undici non c’era proprio più nessuno.
Mi rilassai sulla poltrona al banco della cassa prima di mangiare.

Entrò Gnicchi Gnacco, affannato, con un autoradio sotto braccio e un sacchetto in mano.

“Barò, ma che sfaccimm’é cumbinato? Si t’acchiappavan’ Aitan’ e Ninnone, stavota veramente te spaccavan’a capa. E si te’ncucciav’o padrone r’a machina t’abbuscav’ n’ata curtellata. Strunz’.”

“Fra’ nun m’ha visto nisciuno, t’o’ ggiuro!”

“E mo’ che faje ccà, che vuò a me? Tien’addò ji?”

“No Fra’, sto ssule. Int’a machina  ce steva stu sacchett’é noci,” Con il suo sorriso da scimmia.


Apparecchiai su un tavolo del bar con la tovaglia rossa del fagotto.
Presi dei piatti di carta e delle posate di plastica.
Ci sedemmo.
Scoprii il piatto di spaghetti ancora fumante e il baccalà.

“Buon’appetito e auguri Barò.”
“Auguri Friarié”.

(Milano, novembre 2011)