lunedì 30 gennaio 2012

Una voce che ride nella neve

Antefatti. Giorgio. Due. 

Era appena tornato da scuola.
L’aveva intravista all’uscita dell’Alfieri, che si avviava alla fermata dell’autobus con un ragazzo.
Non aveva fatto in tempo ad attirare la sua attenzione.
Mangiò di corsa in compagnia di sua madre, ascoltando una radio privata che mandava musica progressiva italiana, PFM, Osanna, Le Orme.
Andò in camera sua. Pensò. Pensò ancora.
Era deciso, l’avrebbe cercata a telefono.
E pensò.
Ancora.
E ancora.
Finalmente si decise. Erano le tre passate.
Chiamò Silvana al numero che lei gli aveva dato, sul traghetto, tre giorni prima.
“Pronto, casa…”
“Sì, chi è?”
“Sono Giorgio, un compagno di liceo di Silvana.”
La voce della signora, doveva essere la mamma di Silvana, era giovanile e cristallina, con un riconoscibile accento napoletano.
Giorgiò sentì:
“Silvana! Silvana…” e, più sfumato, come quando si copre con la mano il microfono, “Silvana, ci sta uno con una voce da chiattillo che ti cerca, dice di essere un tuo amico del liceo.”
Non capì Giorgio cosa intendeva dire la signora con la parola “chiattillo”, dal tono gli sembrò un sinonimo di secchione o qualcosa di simile, ma non se ne offese.
“Sì?”
“Ciao Silvana, sono Giorgio, della prima D, quello dell’altro giorno sul vaporetto…”
“Ah, sì…”, con voce contenta, “come va? Ce l’abbiamo fatta. Siamo sopravvissuti.”
“Ti ho vista all’uscita di scuola…e allora ho pensato di chiamarti. Anzi, ti andrebbe di vederci?”
“Oggi no, mi dispiace, ma devo fare una versione di Greco per domani e ne avrò per tutto il pomeriggio.
E comunque, ascolta Giorgio, io esco con Patrizio, quello della quinta E. Non sarà facile, tra lui e i compiti, trovare il tempo per vederci.”
“Ma stai con quello sciroccato?”
“Ma no, figurati. E poi, cosa significa “stai con quello”?” Ci esco, mi fa piacere starci insieme, parlare di tante cose, tra noi c’è una forte condivisione di sentimenti. Tutto qui.”
“Con quello scemo? Ma è un tipo strano. Ed è completamente fuori dal giro del collettivo.”
“Ascolta Giorgio, a me non me ne frega niente del collettivo e meno che mai di quelli che fanno i capetti di altri quattro piccoli intellettuali come loro.
E poi chi sei tu per dare giudizi su me e su Patrizio?
Ora vado a fare la versione. Ciao.”
“Scu…Ciao.”
Silvana riattaccò.


Nota a margine.

Piccoli estratti da quello che sta diventando un vero e proprio romanzo: la storia di Silvana e Giorgio lungo un arco di tempo che va dagli anni del liceo fino più o meno ai giorni nostri.
Gli episodi sono delle scene “filmate” delle fasi principali della vita dei protagonisti, Silvana e Giorgio, Edoardo e Mara, loro compagni di vita, marito di lei il primo, moglie di lui la seconda.
In  queste note, siamo all’inizio della storia. Ai tempi del liceo.
Per il momento, prendetele per quello che sono, delle fotografie di momenti di vita.
Il resto si vedrà.

martedì 24 gennaio 2012

Una voce che ride nella neve

Antefatti. Giorgio.

Giorgio non soffriva il mare, o perlomeno, non aveva mai provato il mal di mare le poche volte che era stato su una nave o su una barca a motore.
Quel giorno, tra l’Elba e Piombino, il mare era agitato.
Era stata una bella gita.                
Giorgio era in prima liceo classico, all’Alfieri di Torino.
Il viaggio “napoleonico” all’Elba era stato un ottimo pretesto per due giorni di libertà e di casino. Tanto anche i professori, compresi quelli di Storia e Filosofia, si facevano i cazzi loro. Il professore di matematica della sezione A e la professoressa della sezione C stavano insieme e avevano trasformato il viaggio di studio sull’esilio di Bonaparte, in un piacevole soggiorno d’amore.
Un solo incidente aveva turbato le due giornate, un ubriaco, provocato da un compagno di prima D di Giorgio, gli aveva tirato una bottiglia, che lo aveva mancato di poco.
La rissa era stata sfiorata per un pelo.
A quel tempo Giorgio non aveva ancora una ragazza, ne conosceva molte e molte ne erano attratte, ma ancora niente di serio era accaduto.
Che mare!
Avevano mangiato pollo arrosto con patatine al forno. Il pollo faceva su e giù nel suo stomaco esattamente come il traghetto tra le onde alte del mare in tempesta.
Il tempo non passava mai, come la sua nausea insopportabile.
Era affacciato al parapetto sperando di vomitare. Praticamente quasi capovolto.
E finalmente il vomito. Mai tanto desiderato.
Sollevatosi, si pulì con il fazzoletto e si guardò intorno.
E fu allora che vide a due metri da lui, anche lei china sul parapetto, una ragazza dai capelli castano chiari, mossi, che sembrava vittima delle stesse sofferenze.
Si girò. Aveva gli occhi blu.
“Ciao” gli disse, “vogliamo morire insieme? Ti va?”, sorridendogli.
“ Scherza tu.” Rispose Giorgio ricambiando il sorriso, ora che liberatosi, sentiva un sollievo nel corpo e nell’anima.
“Io mi chiamo Silvana, sono in quinta A.”
“Io sono Giorgio, prima C. Ma com’è che non ti ho mai incontrata finora?”
“Qui in gita?”
“Ma no, svegliona, a scuola.”
“Non so, avremo orari molto diversi.”
“Certo, non è la circostanza ideale per fare conoscenza.”
“Possiamo sempre consolarci a vicenda e sopportare insieme le nostre sofferenze.”
E stavolta, quegli occhi blu e quel sorriso incantarono Giorgio. Silvana gli apparve come la ragazza più bella che avesse mai incontrato.
O forse era il sollievo dal mal di mare che gliela faceva apparire così.
Intanto la nave era entrata nel porto di Piombino. Cominciava le manovre di attracco.
“Ragazzi, ragazze, sezione A qui con noi.”
Era la professoressa di matematica che chiamava a raccolta i ragazzi del ginnasio.
“Devo andare” disse Silvana.
“Mi…mi …ti va di darmi il tuo numero di telefono?”
Giorgio si scoprì inaspettatamente timido.
“Certo che mi va. Ora te lo scrivo su un foglietto. Io abito a Nichelino.”
“Io nella zona di Via Nizza. Ti chiamo allora?”
“Quando vuoi, Giorgio.”
L’immagine di Silvana sorridente, pallida come un cencio e con i suoi enormi occhi blu, gli avrebbe fatto compagnia nei giorni e nelle notti a venire.
Fino a quando trovò il coraggio di chiamarla un pomeriggio.


sabato 14 gennaio 2012

Vuoto assoluto

Da sempre, forse da quando ho raggiunto l’età della ragione, certamente da quando frequentavo le scuole medie, la mia aspirazione più profonda è stata tendere con il pensiero verso il nulla.
Ma non il nulla inteso come il “Nirvana” delle filosofie orientali.
No.
Per carattere innato e per formazione culturale e filosofica il mio spirito è permeato di pensiero occidentale, di filosofia greca, Platone innanzitutto, e lo stoicismo.

Il nulla come condizione di equilibrio finale. Come concetto fisico, più che filosofico.

Da piccolo immaginavo il nulla come l’Universo in cui su quell’infinitesima parte che è il pianeta Terra, si fosse estinta ogni forma di vita. Posto che nessun’altra forma di vita esistesse in alcun’altra parte di esso.
Ecco, un Universo senz’alcuna Entità che possa percepirne l’esistenza.
Questo era per me il nulla quando ero ragazzo.

Un teatro vuoto, con le pareti e la scena completamente bianche. Un attore che recita, da solo, in maniera sublime il suo capolavoro.
In platea nessuno.
In regia nessuno.
Il vuoto intorno a lui.
Questa è una buona approssimazione di quello che intendo per “nulla”.

Una radio lasciata accesa su un canale che trasmette un brano blues, per sola voce e chitarra, in un appartamento completamente vuoto.
Anche questa è una buona approssimazione.

Un pianista che prova alla tastiera elettronica, ascoltandosi in cuffia, un brano sublime.
E intorno a lui vuoto e silenzio.

Studiare la sera, tardi, da solo, in una biblioteca completamente vuota.

Un vecchio, su un’isola greca, nel nostro Mediterraneo, una piccola isola con pochissimi abitanti.
D’inverno.
In cima a un promontorio.
Solo.
A contemplare il mare, sotto il cielo grigio.
Circondato dal nulla.

lunedì 9 gennaio 2012

Anche ieri

Una delle sensazioni più piacevoli della vita è andare dal barbiere.
Sì dal barbiere. A me piace chiamarlo ancora come una volta, come si chiamava a Napoli quando ero giovane universitario.
Da un po’ di tempo anche gli uomini lo chiamano parrucchiere e qualcuno che vuole mettere la lingua ancora più nel pulito lo chiama “coiffeur pour homme “.
Ma per me resta sempre barbiere.
Fin da ragazzo ho trovato i momenti passati sulla poltrona del barbiere così rilassanti, che favoriscono la riflessione, la fantasia, ma anche lo scambiare parole banali in libertà.
Piacere sublime era per me parlare dei successi del Napoli mentre don Antonio (così si chiamava il mio barbiere di Santa Maria La Nova a Napoli) mi massaggiava i capelli col balsamo o mi passava la crema idratante sul viso.
Quando ero al liceo il giorno prima di una versione di latino o greco o prima del compito d’italiano, passavo il pomeriggio dal barbiere.
Ma la sensazione più distensiva e l’effetto più efficace la sentivo ai tempi dell’università quando, nei giorni in cui avevo un esame di pomeriggio, trascorrevo tutta la mattina da don Antonio a rilassarmi facendomi fare barba, capelli, lozione, massaggio al viso e al cuoio capelluto.
Sono sicuro che il 30 e lode in reattori nucleari lo devo principalmente al potere rilassante di don Antonio.
Oggi non si va più dal “parrucchiere” con la frequenza e con lo spirito con cui si andava dal barbiere.  Si va molto più di rado per rispondere nel più breve tempo possibile a una necessità, non con la voglia di trascorrere un’ora e più di piacere, di relax assoluto e di libertà per la mente.
Io continuo ad andarci con questo spirito.
Alla vigilia dei miei impegni più importanti, cascasse il mondo, anche se sembra non esserci tempo sufficiente per la preparazione del lavoro, almeno un’ora da dedicare al (ahimè) parrucchiere devo averla.  
Si parla, si fantastica, si sogna, s’immagina, si pensa…
Anche ieri.
Ne guadagna la salute dello spirito.
(Nizza, 25 agosto 2010)

venerdì 6 gennaio 2012

"Una strana tristezza". Di Mario Bianchi

Una strana tristezza
accarezza stasera
il mio cuore.

dolce come di neve
calda come di pianto
che scende
lentamente
sulla mia pelle
e arranca.

non cerco risposte
non trovo domande
ma stanche
più stanche
vedo svanire
illusioni.

una strana tristezza
accarezza stasera
il mio cuore.

Mario Bianchi

mercoledì 4 gennaio 2012

La spacciatrice di pane

Uno dei momenti più piacevoli della giornata, quando sono in Francia, soprattutto d’estate, è andare a comprare la baguette o la michette da quella che chiamo la mia spacciatrice di pane.
E’ una vecchia bottega di panetteria artigianale, a circa 300 metri da casa mia.
Certe mattine, poco prima delle undici, scendo di casa, esco dal portone sulla strada assolata, mi porto dal lato in ombra e cammino a passo lento, godendomi l’aria sempre un po’ fresca per il tiraggio che fanno queste lunghe traverse che degradano molto lentamente fino al mare.
Sapere che sto andando a prendere il pane mi mette di buon umore.
Il bello della vita qui è godere le piccole cose, in un edonismo minimalista che sembrerebbe contraddire la fama snob di questi luoghi.
Se il cielo è un po’ coperto, l’atmosfera è ancora più gradevole.
Raggiungo il primo incrocio, guardo la lavagna del bistrot di fronte, sulla quale è scritto il piatto del giorno.
La leggo con attenzione e curiosità, anche se non ho in programma di pranzare là, commento tra me e me la proposta, un auspicio per la giornata, attraverso la strada e continuo a camminare.
Passo davanti al negozio di fiori e al negozio di strumenti musicali, guardo in un'altra traversa in fondo alla quale è un piccolo supermarket, una superette, come dicono qui, pensando se mi serve qualcos’altro.
Poi vedo la bottega, di vecchio panettiere, con le sue boiserie rosso ciliegio, fuori il banchetto con “Nice matin”, e il profumo del pane appena sfornato.
La panettiera, la mia spacciatrice di pane, è una donna sui quarant’anni, dall’aria di scoppiatona di una volta, a metà tra Zola e Kerouac. Il viso non è bello, ma ha un che di piacevole, con quel suo aspetto drogato, precocemente invecchiato.
Mi piace immaginarla giovane hippy, strafatta di qualunque cosa, che a una certa età col suo compagno ha rilevato la panetteria.
Dentro la bottega, alle spalle del banco, i ripiani di legno sui quali è il pane: pane di campagna, bianco e nero, in pagnotte piccole e grandi, pane ai cereali e, soprattutto, baguettes e il loro capolavoro, le michettes.
Ma le michettes sono sfornate solo alle undici e solo pochi pezzi, per cui se si arriva troppo presto c’è da aspettare, se si arriva magari già solo alle undici e dieci, non se ne trovano più.
Per questo vado verso le undici, e qualche volta aspetto.
Il forno è a vista, dietro al banco. Il fornaio è il compagno della panettiera, anche lui sui quaranta, tatuatissimo, con i capelli lunghi, gli occhi da drogato perso, gentilissimo e simpatico.
Non c’è bisogno di chiedere, la signora mi porge, se c’è, la michette, altrimenti mi fa uno sguardo complice di comprensione e mi porge una baguette.
Caldissima di forno.
Pago.
Saluto.
E piano, molto piano, a passi lentissimi, ritorno a casa.