sabato 2 giugno 2012

Appunti di giorni passati. Un romanzo d'appendice.

Otto.


Niente da fare, non riuscivo a dormire.
Ormai albeggiava. Aprii la finestra e lasciai entrare il profumo dell’aria fresca e i rumori della città che si sveglia freneticamente, secondo il suo stile, da sempre.
Sorrisi, mi passò per la mente una canzone di infiniti anni fa: “Il est cinq heures, Paris s’eveille”,  di Jacques Dutronc.
Riaprii il cassetto. Stavolta non sollevai le camicie per riguardare la molletta.
Presi tra le mani il quadernetto nero. Il Calepino, come lo chiamavo.
Sì, ero solo, fortunatamente, i figli dall’altro capo del mondo non correvano alcun pericolo.
E Silvana.
Parole, frasi e lettere, vere o immaginarie, di quel quaderno, era tutto ciò che mi restava di lei.
Lo aprii, si apriva sempre alla pagina, sulla quale era incollato e piegato in quattro parti, il foglio con l’ultima mail che mi aveva inviato.
Mi tornò in mente il ricordo di una mattina di maggio, una vita fa.
A Ischia.
Quella mattina, dopo aver passeggiato a lungo attraverso la pineta, ero andato a sedermi al tavolo del chiosco davanti a quello che una volta era il carcere dell’isola, sugli scogli della spiaggia dei pescatori.
Il cielo era striato di nuvole.
A sinistra, oltre lo stretto,  al di là del mare, così vicina da poterla toccare, vedevo Vivara.
Di fronte, Il Castello Aragonese, con il suo lungo pontile e il suo riflesso nello specchio d’acqua verde smeraldo.
Nelle belle giornate fredde e terse d’inverno invece amavo andare a Cartaromana, sedermi su uno scoglio a riva e guardare Capri in lontananza.
Come tutte le mattine, avevo con me un libro e quel calepino, dove tenevo appunti. Dove custodivo versi, storie, pensieri. Lettere.
Lettere a Silvana.
Per anni avevo cercato di contattare le due figlie di Silvana, ma si erano sempre negate.
Probabilmente Edoardo le aveva messe in guardia da me.
Perché Edoardo aveva sempre saputo tutto di Silvana e di me, ormai ne ero convinto.
Anche allora aprii la pagina su cui era la mail che lei mi aveva scritto, ormai dieci anni prima.
L’ultima.
E la leggevo.
E le scrivevo.
Spesso.

Quella mattina le avevo inviato i versi di una canzone che tante volte le avevo dedicato.

“J'aimerais quand même te dire
Tout ce que j'ai pu écrire
Je l'ai puisé à l'encre de tes yeux.

J'aimerais quand même te dire
Tout ce que j'ai pu écrire
C'est ton sourire qui me l'a dicté.”

Come ogni giorno da dieci anni, da quando era sparita, glieli avevo inviati con il pensiero, in un ritorno al sogno.
Con tutte le altre lettere.

Poi  avevo richiuso il quaderno.
Lentamente mi ero alzato dalla panchina, gli occhi fissi sul mare.
Un ultimo sguardo al Castello Aragonese.
Mi ero voltato, avviandomi verso la pineta.
Come ogni mattina.

Ma Silvana non era in pericolo.
Silvana non c’era più.

(Continua)