domenica 21 ottobre 2012

Ritratti ad acquerello


4. Laurie

La intravidi a un tavolo vicino al nostro. Erano quattro coppie. Non ne avevo percepito subito la presenza. Mi accorsi che faceva parte di quel gruppo quando si alzò e senza chiamare il cameriere andò da sola a prendere una bottiglia di vino e un secchiello con il ghiaccio.
Era di casa Laurie al “Vin sur vin”.
Era la maître di sala.

Ricordo la sera che facemmo la sua conoscenza, forse dieci anni fa ormai. Allora il maître era ancora Mario, un bell’uomo, canuto, francese doc a dispetto del nome, che parlava benissimo l’italiano e si divertiva con noi a chiacchierare degli argomenti più svariati nelle due lingue.
Quella sera, era inverno, eravamo nella sala interna, calda ed accogliente con le sue boiserie e le sue pareti ricoperte di scaffali di legno scuro sui quali erano poste in maniera impeccabile migliaia di bottiglie di vino.
Non venne Mario a prendere la commande.
Si avvicinò al nostro tavolo una ragazza dall’apparenza timida.
Aveva i capelli neri a caschetto, occhi nerissimi.
Il mento a punta e la forma del viso, spigolosa e dolce allo stesso tempo, rendevano grandissimi quegli occhi.
Era di altezza media, il corpo magro, ma neanche tanto, le spalle strette, in armonia con i piccoli seni, mai ostentati.
La sua pelle era di un colore ambrato
Aveva insomma una sua grazia particolare.
Quando ordinammo, la sua timidezza apparente si trasformò in una garbata freddezza di sublime professionalità.

“Bien, c’est parti!”

disse usando la frase di rito di Mario quando aveva completato le ordinazioni, e ci offrì dello spumante come aperitivo.
Trascorremmo una bella serata, la cena fu squisita come sempre, e come sovente accadeva, alcune portate rasentarono il sublime.
Il servizio di Laurie fu impeccabile. Tuttavia freddissimo.
Mi piaceva la professionalità spinta di quella ragazza.
Quando, pagato il conto, ci salutammo, le dissi che era nuova del “Vin”, lei mi rispose di sì e che aveva un contratto di sole cinque settimane. Capii dal suo modo di porsi che sapeva che eravamo vecchissimi clienti, ai quali la proprietà teneva molto.

Passarono un paio di anni. Mario lasciò il “Vin” e aprì un ristorante a Parigi.
Per qualche mese condusse il bistrot direttamente Franck, il proprietario. Poi, una sera d’estate, eravamo a un tavolo in terrazza, comparve lei, Laurie.
Ci riconobbe, ci sorrise.
Intendiamoci, “sorrise” è una parola forse troppo confidenziale, diciamo più correttamente che ci rivolse uno sguardo cordiale.
Aveva i capelli lunghi, non più a caschetto e la sua pelle era ancora più bruna.
Era lei il nuovo maître al posto di Mario.
Il suo ritorno però suscitò l’invidia dei due camerieri più anziani, che aspiravano a loro volta alla promozione. E invece era stata richiamata quella ragazza che due anni prima aveva lavorato con un contratto a termine.
Fu forse quello il periodo migliore e di maggior successo del “Vin”. Eppure talvolta percepivo una fortissima tensione tra Laurie e i suoi sottoposti.
Lei era bravissima.
Quella ragazza minuta con gli occhioni neri, che non alzava mai la voce, con toni pacati ma freddissimi e che non ammettevano replica, faceva marciare il locale a livelli di altissima qualità.
Entrammo in confidenza, d’inverno cenavamo lì tutte le volte in cui arrivavamo a Nizza e d’estate prendevamo l’aperitivo quasi ogni sera e spesso ce lo offriva.
Ci raccontò un po’ di lei, che era della Martinica, che aveva studiato moltissimo e preso il diploma nei migliori istituti alberghieri di Francia, che un giorno sarebbe ritornata nelle Antille, dai suoi.

Mi sembrò strano vedere Laurie in veste di cliente e non di maître. Quando ripassò con la bottiglia e il secchiello del ghiaccio, ci riconobbe e ci sorrise, e stavolta era un vero sorriso.
E la vedemmo spigliata e naturale e la sentimmo ancora ridere e sorridere con i suoi amici.
Mi rivolse uno sguardo ammiccante e, mostrandomi la bottiglia di vino, disse

“oggi basta essere seri, Monsieur Romano, non lo sono io, non lo siate neanche voi. Beviamo insieme.”

E rideva. E rideva.

Finirono di cenare. Laurie si alzò e si avvicinò a me per salutarmi. Con mia enorme sorpresa mi abbracciò e mi baciò.
Mi sussurrò:

“E’ la mia ultima sera a Nizza. Torno in Martinica. E’ stato bello conoscervi.”

Mi baciò ancora. Poi prese il casco.
Si avviò verso la moto, che teneva come sempre parcheggiata sotto un albero di fronte. Mise in moto.
Partì. Senza voltarsi.

Nizza, agosto 2010. Milano, ottobre 2012.




sabato 20 ottobre 2012

Ritratti ad acquerello

3. La spacciatrice di pane


Uno dei momenti più piacevoli della giornata, quando sono in Francia, soprattutto d’estate, è andare a comprare la baguette o la michette da quella che chiamo la mia spacciatrice di pane.
E’ una vecchia bottega di panetteria artigianale, a circa 300 metri da casa mia.
Certe mattine, poco prima delle undici, scendo di casa, esco dal portone sulla strada assolata, mi porto dal lato in ombra, e cammino a passo lento, godendomi l’aria sempre un po’ fresca, per il tiraggio che fanno queste lunghe traverse che degradano molto lentamente fino al mare.
Sapere che sto andando a prendere il pane mi mette subito di buon umore.
Il bello della vita qui è godere le piccole cose, in un edonismo minimalista che sembrerebbe contraddire la fama snob di questi luoghi.
Se il cielo è un po’ coperto, l’atmosfera è ancora più gradevole.
Raggiungo il primo incrocio, guardo la lavagna del bistrot di fronte, sulla quale è scritto il piatto del giorno.
La leggo con attenzione e curiosità, anche se non ho in programma di pranzare là, commento tra me e me la proposta, un auspicio per la giornata, attraverso la strada e continuo a camminare.
Passo davanti al negozio di fiori e al negozio di strumenti musicali, guardo in un'altra traversa in fondo alla quale è un piccolo supermarket, una superette, come dicono qui, pensando se mi serve qualcos’altro.
Poi vedo la bottega, di vecchio panettiere, con le sue boiserie rosso ciliegio, fuori il banchetto con “Nice matin”, e il profumo del pane appena sfornato.
La panettiera, la mia spacciatrice di pane, è una donna sui quarant’anni, dall’aria di scoppiatona di una volta, a metà tra Zola e Kerouac. Il viso non è bello, ma ha un che di piacevole, con quel suo aspetto drogato, precocemente invecchiato.
Mi piace immaginarla giovane hippy, strafatta di qualunque cosa, che a una certa età col suo compagno ha rilevato la panetteria.
Dentro la bottega, alle spalle del banco, i ripiani di legno sui quali è il pane: pane di campagna, bianco e nero, in pagnotte piccole e grandi, pane ai cereali, ma, soprattutto, baguettes e il loro capolavoro, le michettes.
Ma le michettes sono sfornate solo alle undici e solo pochi pezzi, per cui se si arriva troppo presto c’è da aspettare, se si arriva magari già solo alle undici e dieci, non se ne trovano più.
Per questo vado verso le undici, e qualche volta aspetto.
Il forno è a vista, dietro al banco. Il fornaio è il compagno della panettiera, anche lui sui quaranta, tatuatissimo, con i capelli lunghi, gli occhi da drogato perso, gentilissimo e simpatico.
Non c’è bisogno di chiedere, la signora mi porge, se c’è, la michette, altrimenti mi fa uno sguardo complice di comprensione e mi porge una baguette.
Caldissima di forno.
Pago.
Saluto.
E piano, molto piano, a passi lentissimi, ritorno a casa.

Nizza, Agosto 2010.

mercoledì 17 ottobre 2012

Ritratti ad acquerello


2. La signora di Borgomanero

Era bruna, occhi neri, capelli lunghi raccolti a coda. Vestiva un jeans, un maglioncino e, sopra, un giubbotto.
La prima cosa che ho notato è che aveva un piercing all’orecchio destro, un anellino con una pallina metallica.
Nonostante l’aspetto e l’abbigliamento giovanile era una signora di più di 35 anni.
Non emanava fascino, non nel senso più comune del termine almeno, ma m’incuriosiva molto e non era per niente brutta, anzi, tuttaltro, era a suo modo attraente, ma solo per chi poteva davvero percepirlo.
L’imbarco sul volo da New York per Milano era stato puntualissimo. Un po’ di ressa per overbooking, ma niente di grave, alla fine tutti avevano trovato posto.
Lei mi era seduta a fianco.
Al principio non mi ero reso conto che fosse italiana.
Non aveva detto una parola e io per discrezione le avevo rivolto solo uno sguardo di saluto a cui aveva risposto con i suoi grandi occhi neri.
Durante il decollo era raccolta, con la testa bassa e lo sguardo fisso sulle sue mani poggiate sulle ginocchia.
Ho avuto l’impressione che avesse paura di volare, ma non percepivo in lei tensione, piuttosto concentrazione pensierosa, volere stare sola con se stessa.
Per due ore ogni tanto la guardavo. Ferma con le mani raccolte e lo sguardo fisso su di esse.
Poi le sono caduti gli occhiali da sole che teneva poggiati sul sedile.
Li ho raccolti.
Glieli ho porti.
E allora il suo “grazie” mi ha rivelato che era italiana.
Aveva  una voce dolce un po’ acuta, che trasmetteva un immediato senso di tenerezza.
Una voce e un tono, però, che non davano spazio ad approcci di conversazione.
Intendiamoci, non era freddezza, anzi, tutt’altro, non era scostante, non so, ma ho sentito subito un senso di rispetto.
E io che sono sì freddo e scostante, ho colto subito la confidenza di quel segnale.
Dopo un’altra ora, mentre guardavo il film, ho sentito di nuovo la sua voce:

“ Mi scusi, può aiutarmi? Non mi funziona la cuffia”.

Le ho sorriso, ho guardato le sue cuffiette. Avevano entrambi gli auricolari rotti.

“Uff, ora devo aspettare che passi la hostess o chiamarla…”

Ne avevo un paio in più, non so perché.
Le ho offerto le mie.
Mi ha sorriso a sua volta, soprattutto con gli occhi.
Sono passate altre ore.
Ogni tanto mi giravo dalla sua parte, la vedevo dormire, sempre col suo giubbotto jeans addosso.
L’ho vista alzarsi per sgranchire le gambe, e tornare a sedersi.
Poi finalmente il linguaggio degli sguardi ha fatto trasparire un minimo spiraglio a comunicare, a parlare.
Mi ha guardato un impercettibile attimo in più di prima, era l’invito.

“ Tutto bene?” le ho chiesto.

“Sì, tutto bene, e lei?”

Adesso aveva bisogno e voglia di parlare, e allora mi ha raccontato del suo viaggio negli USA, del suo compagno, che ci andava spesso per lavoro, ma che per questo non era potuto rientrare con lei, dei posti dove aveva soggiornato.
Ascoltavo. Finalmente rilassata, sorrideva.
Avevamo taciuto rubando solo sguardi per sette ore.
Poi mi ha rivelato di essere un chimico industriale, di lavorare in Brianza.
Le ho detto che sono ingegnere e che anch’io ho lavorato nell’industria chimica per anni.
Si è sciolta completamente. Abbiamo continuato a chiacchierare di tutto, delle nostre vite e delle esperienze di lavoro, per molti versi comuni.
“Lavoro in Brianza, ma sono di Borgomanero”.
Borgomanero, un paese cui sono molto affezionato, che mi ricorda i primi tempi al nord, meno che trentenne, quando ci passavo nei fine settimana andando al Lago d’Orta.

“Io ho un ufficio a Novara”.

Ha subito sorriso, aveva trovato un altro elemento che ci accomunava in qualche modo.
Mentre parlavamo di futuro e di lavoro, l’aereo è atterrato senza  che quasi ce ne rendessimo conto.
Abbiamo raccolto le borse.
L’ho aiutata a tirare giù i bagagli.

“In bocca al lupo” le ho detto, “forse allora le nostre strade s’incroceranno…”

“ Lo spero veramente”…

”buona fortuna”.

La coda per il controllo passaporti era particolarmente lunga e lenta.
Ho sentito alle mie spalle una voce:

“Buona fortuna ancora e…a presto…”

Mi sono voltato, ho visto i suoi occhi fissarmi e un ultimo sorriso.
Poi la coda ha cominciato a muoversi sempre più veloce.

lunedì 15 ottobre 2012

Ritratti ad acquerello


1. Anna del Portnoy 

Era ottobre, a quei tempi tornavo dal lavoro con la metropolitana verde, scendevo a Sant’Ambrogio e prendevo la 96, allora era questo il numero della linea di autobus che percorreva la circonvallazione interna di Milano, oggi è la 94.
Due fermate fino all’incrocio tra via De Amicis, Via Molino delle Armi e Colonne di San Lorenzo, Corso di Porta Ticinese, dove abitavo in una vecchia palazzina.
E proprio all’angolo tra via De Amicis e Corso di Porta Ticinese c’era e c’è tuttora un caffè, il Portnoy.
Tutte le sere, in quell’autunno dolce dell’89 posavo la mia borsa a casa e con la mia compagna andavo a prendere lì l’aperitivo.
Era un caffè letterario, l’atmosfera era molto calda e piacevole, quasi come nell’oleografia della Milano anni ’60, tra tavoli di legno di ciliegio e il lungo banco con gli stuzzichini, sgabelli alti rivolti verso la vetrina che dava su Corso di Porta Ticinese e, al piano di sopra, una bella sala, con tavolini e sedie, sempre di ciliegio, che aveva alle pareti antichi manifesti d’iniziative letterarie e culturali.
Era bella Anna.
Dietro al banco del bar sorrideva ai clienti.
Era alta e la pedana la faceva ancora più alta.
Le forme generose e i capelli, tra il biondo e il castano chiaro, gli occhi, castani anch’essi, avevano la bellezza tipica delle ragazze napoletane.
Perché Anna era napoletana.
Era un appuntamento fisso, verso le sette e mezza.
Sedevamo sugli sgabelli al banco e chiacchieravamo a lungo con lei, che, in tallieur nero, gilet e camicetta bianca, ci chiedeva cosa desiderassimo bere, preparava le bevande con gesti sicuri ed eleganti, agitava il mixer come se quello della bar woman fosse da sempre il suo mestiere.
Ci parlava di lei. Le raccontavamo di noi.
Era laureata in lettere Anna, aveva frequentato il liceo classico, l’Umberto, amava la letteratura. Aspettava l’esito del concorso a cattedre alle scuole superiori e intanto era venuta a Milano. A lavorare al bar.
Al Portnoy.
Noi eravamo tornati da Roma da meno di un anno e tra poco più di un mese avremmo lasciato l’appartamento al Ticinese per traslocare definitivamente nella nostra casa di Porta Genova.
Erano mesi difficili e di avventura, la terza tappa del viaggio della mia vita era ripartita da Milano in un gelido gennaio, con la febbre a quaranta.
Dopo un inverno freddo e duro da tutti i punti di vista, per il corpo e per l’anima, avevamo avuto una primavera dolce e dai colori pastello, tra il celeste del cielo, il verde dei boschi del Parco del Ticino, la quiete dei laghi al sabato e alla domenica.
Il mese di maggio ci aveva regalato il trasloco provvisorio da Corso Italia a Porta Ticinese. E in quel quartiere mi trovai subito a mio agio, come se ci fossi vissuto da sempre: i suoi negozi ancora piccoli e familiari allora, le sue botteghe, i suoi caffè, le sue osterie erano un mondo lontano dai Banchi Nuovi a Napoli, dove ero nato e cresciuto, eppure mi sentivo benvenuto e accolto con calore. Insomma, ci stavo proprio bene. Perfino l’unico ristorante cinese non guastava l’atmosfera tutta milanese, esattamente come uno la immagina.
E così prendemmo l’abitudine la sera, al ritorno dal lavoro, di andare al Portnoy. E con Anna, non solo perché napoletani, ci fu subito un idem sentire, si parlava di letteratura, di filosofia, dell’attualità del Paese e di Milano. Si parlava poco o niente di Napoli. Come se un pudore particolare ce lo impedisse.
A novembre traslocammo a Porta Genova.
A gennaio Anna tornò a Napoli.
Anni dopo siamo tornati al Portnoy, che intanto era diventato uno dei caffè più famosi di Milano.
Era gestito da un ragazzo indiano.
Si mangiavano ottimi panini.
Si beveva un’eccellente birra.
Mancava Anna.

Milano, 15 ottobre 2012.


sabato 6 ottobre 2012

Una giornata di primavera


Era una bellissima domenica di maggio.
Eravamo a Napoli, ai “Cavalli di bronzo”, davanti al Maschio angioino.
C’era quell’aria di primavera e quei colori che non ho mai più ritrovato in nessun’altra parte del mondo.
Colori pastello illuminavano l’aria.
Di solito a Napoli i colori, nelle giornate di sole, sono molto intensi, con forti contrasti su un tono di fondo tendente all’arancione, per via del tufo. Ma quel giorno era diverso. Era primavera inoltrata. Da poco eravamo reduci dai guasti fisici e sociali del terremoto, e io e la mia famiglia ne eravamo stati colpiti duramente.
Era il 1981.
Mi ero laureato in ingegneria con 110 e lode da pochi mesi. E da pochi giorni avevo superato, con il massimo dei voti, l’esame di stato per l’abilitazione alla professione.
Mi sentivo l’uomo più potente del mondo.
A dispetto del terremoto.
A dispetto della mia povertà.
A dispetto delle sicure difficoltà che avrei trovato nel cercare lavoro.
Ma a questo avrei pensato da lunedì. Quella mattina io e la mia compagna andavamo a Sorrento per passare una giornata felice.