Cinque.
Discutemmo
una ventina di minuti. Mi raccontò in maniera un po’ più dettagliata quello che
si stava muovendo nel mondo del traffico di rifiuti e i pericoli che me ne
derivavano. Mi disse che per il momento la mia situazione non destava ancora preoccupazioni,
ché agenti dei servizi francesi mi tenevano sotto controllo con discrezione.
Mi lasciò il numero di un cellulare italiano,
raccomandandomi di chiamare nel caso percepissi anche la minima anomalia nella
routine che si svolgeva intorno a me.
“Au
revoir monsieur Toscano. Ci ritroveremo in Italia probabilmente. E mi saluti il
capitano Claudia Somma quando la vedrà”.
Finii
di cenare, con calma. Pensieri e ricordi cominciavano a invadermi la mente. Non
ero preoccupato, né agitato, la cosa più importante è che non avevo nessuna
persona cara, in Italia o in Europa, per la cui sicurezza potessi temere. I miei
figli erano uno a Boston, l’altro in Guadalupa, abbastanza lontani e in mondi,
dove difficilmente poteva concretizzarsi una qualche forma d’intimidazione
trasversale. In ogni caso li avrei avvertiti. Sapevano il fatto loro.
Tornai
in albergo a piedi, passeggiando per le vie di Parigi fino a Boulevard Saint Michel.
Alloggiavo in un alberghetto proprio di fronte alla Sorbona, ci dormivo dai
tempi in cui ero studente, era piccolo e accogliente, con la sua atmosfera anni ‘70,
frequentato da studenti, professori e ricercatori. Mi trovavo bene, mi sentivo
a casa e così, ancora adesso che ero un alto funzionario europeo, continuavo ad
alloggiarvi.
Come
sempre, come tutte le sere dalla prima che passai a Parigi quarant’anni fa, mi
fermai a prendere un caffè in un locale di Boulevard Saint Michel.
Poi
salii in camera.
Non
so perché ma la prima cosa che feci fu aprire un cassetto, sollevare le
magliette, guardare e toccare il coltello a serramanico, “ ‘a mulletta”, che
portavo sempre con me da quando me l’aveva lasciata o’ bbarone, l’amico mio
ladro di macchine, la sera che morì accoltellato in Via Santa Chiara, a Napoli.
Aveva
rubato uno stereo dalla macchina sbagliata, che apparteneva alla persona
sbagliata. Quella domenica sera il figlio di don Ciccio lo aspettò all’angolo
tra “o’ vich'è segatura” e Santa Chiara. O’ bbarone non fece in tempo ad aprire
bocca, né a difendersi, fu afferrato per le spalle, fatto girare e accoltellato
all’addome con un solo colpo profondo e mortale. Mi trovai a passare per caso
quella sera, ero andato a comprare le sigarette a mio padre. All’angolo tra
Santa Chiara e i Banchi Nuovi c’era l’unico tabaccaio aperto la domenica sera.
Così
lo vidi, lo sentii rantolare, a terra con il sangue che scorreva e il viso
coperto di sputi, ultimo sfregio del figlio di don Ciccio. Era ancora vivo,
corsi in tabaccheria a chiamare un’ambulanza, poi gli tornai vicino, si era
fermata qualche altra persona, Santa Chiara era quasi deserta la domenica sera,
e pioveva. Mi fece segno di avvicinarmi. Mi chinai su di lui. Gli sollevai la
testa. Riuscì a muovere una mano mi poggiò il pugno chiuso nel palmo della mia
e mi diede la molletta che vi teneva stretta, il coltello:
“Annascunnatella,
tienela tu, Friarié. T…ie..ne..la..tu.”
Conoscevo
quella “molletta”, o’ bbarone mi aveva insegnato ad usare il coltello a
serramanico quando eravamo bambini. Mi aveva insegnato a difendermi dai ragazzi
delle bande del quartiere, “d’é guagliun'é vasci’o’ puorto”, e da quelli di
Santa Chiara.
Io
ero dei Banchi Nuovi.
(continua)