martedì 26 giugno 2012

Appunti di giorni passati. Un romanzo d'appendice.


Dieci.

Alla stazione di Valenciennes trovai Manara che mi aspettava. Andammo in un bistrot, ancora inzallanuto dal sonno presi un cafè crème e un  croissant caldo. 
Conoscevo Manara da alcuni anni. Era più un commerciale che un vero ricercatore. Sapeva presentare e vendere molto bene la sua sofisticata merce tecnologica. Lavorava per un piccolo ente di ricerca francese all’avanguardia sui sistemi d’intercettazione satellitari e in generale sui sistemi elettronici e telematici avanzati. Sono convinto che facessero anche ricerche militari segrete. Ma né da Manara , né dal suo collega Hasse, un martiniquais  di colore, era mai filtrata nessuna indiscrezione in proposito.
Ci stavamo spostando in macchina verso gli uffici, dove avremmo tenuto la riunione, quando mi suonò il cellulare. Non riconoscevo il numero, ma era un telefono italiano, +39081…, la chiamata veniva da Napoli.
Risposi.

“Sì? Sono Toscano…Nino? Uà é comm’é fatt’à avé o nummero d’o cellulare mio? Mi fa piacere sentirti…quanti anni…lo so che manco io da Napoli da tanto…è vero. Come stai? Come mai mi hai cercato?"

“Tutt’a posto, e tu staje bbuono?...Senti Edo, ti ho chiamato perché…ti ricordi di Diego Sparagnini?”

“Quel nostro vecchio compagno di liceo e del collettivo studentesco? Ma non era passato alla destra, non è assessore regionale?”

“Sì, Edo, proprio lui. Sai è sempre un amico…”

“E allora? “

“ Mi chiedeva se nel caso passi da Napoli, se ti farebbe piacere prendere un caffè insieme o, meglio ancora, cenare insieme.”

“Sì, volentieri, mi fa piacere rivedervi…solo che è  un po’ difficile, non ho proprio in programma di venire a Napoli a breve.”

“Se ti è più facile, potremmo venire noi a Milano o a Torino…o anche a Bruxelles. Ci farebbe veramente piacere se tu ci dedicassi un po’ del tuo tempo."

(continua)




lunedì 25 giugno 2012

Appunti di giorni passati. Un romanzo d'appendice.



Nove.

Sono sempre stato un uomo di indole molto mite. Fin da piccolo ho amato leggere, studiare. Le ore trascorse al tavolo concentrato su un testo di filosofia greca o su un teorema di geometria, quelle disteso a letto, su una spiaggia o su un prato all’ombra di un albero a immergermi in un romanzo, sono tra i ricordi più belli della mia adolescenza e della mia gioventù. I dibattiti accesi sulla superiorità di un poeta o di uno scrittore, le sere d’estate nei teatri greci ad assistere alle rappresentazioni di tragedie e commedie classiche.
Dalla fine del liceo non ho più frequentato il mio quartiere, e dopo l’università ho lasciato Napoli.
Ho cominciato a girare il mondo e le cose che pesavano di più nei miei bagagli erano i libri che mi portavo dietro, ai quali si aggiungevano quelli che compravo nei paesi di cui conoscevo la lingua.
Nonostante le zuffe da ragazzo, non sono mai più stato una persona violenta, ho sempre seguito comportamenti ispirati alla massima educazione, alla serietà e al rispetto di regole e costumi dei paesi che mi ospitavano.
La “molletta” da quarant’anni era ormai solo un amuleto e il ricordo di un amico d’infanzia sfortunato.

Alle sei e mezza del mattino, dopo una notte quasi di solo dormiveglia, mi alzai, riempii la vasca e feci un bagno tiepido per rasserenarmi e riflettere con più lucidità.
Alle otto e mezza dovevo essere alla Gare du Nord per prendere il treno per Valenciennes, dove avevo appuntamento con Giorgio Manara un ingegnere che da molti anni viveva lì e lavorava in una società di ricerca nel campo della telematica. Mi doveva presentare un nuovo prodotto che permetteva la tracciatura dei flussi di rifiuti con un’affidabilità e un’accuratezza mai ottenute fin allora.
Feci colazione nel bistrot dell’albergo e presi il metro per raggiungere la stazione. Pensavo a come potessero essere organizzati gli uomini dei Servizi Francesi che mi tenevano sotto controllo, un po’ scorta e un po’ spie, e mi divertiva immaginare come stavo loro complicando la vita spostandomi in metro invece che in macchina.
Salii sul treno, un Corail Parigi-Lille. 
Complicazione ulteriore per i miei amici-angeli custodi: avevo deciso di viaggiare in seconda classe. Non per avarizia, perché mi piaceva stare tra la gente comune, osservarli, ascoltarne i discorsi, chiacchierare se ne presentava l’occasione. E certo questo non era il meglio come comportamento di un pedinato-protetto. “Saje é jastemme”, pensai in napoletano ridacchiando.
(continua)

sabato 2 giugno 2012

Appunti di giorni passati. Un romanzo d'appendice.

Otto.


Niente da fare, non riuscivo a dormire.
Ormai albeggiava. Aprii la finestra e lasciai entrare il profumo dell’aria fresca e i rumori della città che si sveglia freneticamente, secondo il suo stile, da sempre.
Sorrisi, mi passò per la mente una canzone di infiniti anni fa: “Il est cinq heures, Paris s’eveille”,  di Jacques Dutronc.
Riaprii il cassetto. Stavolta non sollevai le camicie per riguardare la molletta.
Presi tra le mani il quadernetto nero. Il Calepino, come lo chiamavo.
Sì, ero solo, fortunatamente, i figli dall’altro capo del mondo non correvano alcun pericolo.
E Silvana.
Parole, frasi e lettere, vere o immaginarie, di quel quaderno, era tutto ciò che mi restava di lei.
Lo aprii, si apriva sempre alla pagina, sulla quale era incollato e piegato in quattro parti, il foglio con l’ultima mail che mi aveva inviato.
Mi tornò in mente il ricordo di una mattina di maggio, una vita fa.
A Ischia.
Quella mattina, dopo aver passeggiato a lungo attraverso la pineta, ero andato a sedermi al tavolo del chiosco davanti a quello che una volta era il carcere dell’isola, sugli scogli della spiaggia dei pescatori.
Il cielo era striato di nuvole.
A sinistra, oltre lo stretto,  al di là del mare, così vicina da poterla toccare, vedevo Vivara.
Di fronte, Il Castello Aragonese, con il suo lungo pontile e il suo riflesso nello specchio d’acqua verde smeraldo.
Nelle belle giornate fredde e terse d’inverno invece amavo andare a Cartaromana, sedermi su uno scoglio a riva e guardare Capri in lontananza.
Come tutte le mattine, avevo con me un libro e quel calepino, dove tenevo appunti. Dove custodivo versi, storie, pensieri. Lettere.
Lettere a Silvana.
Per anni avevo cercato di contattare le due figlie di Silvana, ma si erano sempre negate.
Probabilmente Edoardo le aveva messe in guardia da me.
Perché Edoardo aveva sempre saputo tutto di Silvana e di me, ormai ne ero convinto.
Anche allora aprii la pagina su cui era la mail che lei mi aveva scritto, ormai dieci anni prima.
L’ultima.
E la leggevo.
E le scrivevo.
Spesso.

Quella mattina le avevo inviato i versi di una canzone che tante volte le avevo dedicato.

“J'aimerais quand même te dire
Tout ce que j'ai pu écrire
Je l'ai puisé à l'encre de tes yeux.

J'aimerais quand même te dire
Tout ce que j'ai pu écrire
C'est ton sourire qui me l'a dicté.”

Come ogni giorno da dieci anni, da quando era sparita, glieli avevo inviati con il pensiero, in un ritorno al sogno.
Con tutte le altre lettere.

Poi  avevo richiuso il quaderno.
Lentamente mi ero alzato dalla panchina, gli occhi fissi sul mare.
Un ultimo sguardo al Castello Aragonese.
Mi ero voltato, avviandomi verso la pineta.
Come ogni mattina.

Ma Silvana non era in pericolo.
Silvana non c’era più.

(Continua)