lunedì 31 dicembre 2012

Strada Statale 268


Uno.

I negozi del paese cominciavano a spegnere le luci.
Lungo la Strada Nuova poche persone si affrettavano a tornare a casa.
Era buio.
Il buio profondo del cielo d’inverno senza luna.
Il vento di terra spazzava l’aria, la caricava di elettricità.
Le immagini, pur illuminate solo dalla luce dei lampioni, erano nitidissime.
Mi piaceva sentire il freddo in faccia e lasciarmi riempire le narici dal profumo della montagna.
Erano le sette.

Quella sera ero in turno alla stazione di servizio.
Il turno della notte di Natale.


Due.


La stazione di servizio era al vertice della confluenza tra la “Strada nuova” e la statale 268. Del Vesuvio.
La piazzola era triangolare e vi si accedeva da entrambe le strade.
Nel bar c’era Battista al banco e qualche amico a chiacchierare e a bere un caffè all’anice prima di tornare a casa per il cenone.
Su un tavolino di fianco al bancone un alberello di Natale lampeggiava con le sue lucine colorate.
Di lato, lungo la vetrata che dava sulla Strada Nuova, c’era un juke box acceso.
Suonava un brano che s’intitolava “Trenta, sessanta, novanta”.
Ero arrivato in moto, la moto di Battista.
A un centinaio di metri dalla stazione di servizio un folto capannello occupava la Strada Nuova ed ero stato costretto a fermarmi.
Una stufa verticale a gas, a bombola, accesa lì, in mezzo alla strada, aveva attirato la mia attenzione.
Serviva a dare l’illusione di un po’ di tepore in quella notte di vigilia così fredda.
Chiesi a don Vincenzo, un signore che conoscevo, cosa fosse successo.
Mi rispose in napoletano:

“Oi Fra’, che aria é neve. Ma nun saje niente? E’ muort’ mast’Eduardo.”

Pensai che aveva scelto una fredda notte senza luna, proprio la vigilia di Natale, il vecchio capomastro, per la sua veglia funebre.
Superai l’assembramento portando la moto a mano, a motore spento.


Salutai Battista, ci baciammo.

“Cià Fra’” mi sussurrò.

“Cià Batti’, comm’è gghiut’à jurnata?”

“Fin’à vij’è ccinche ce stev’ nu bellu movimento, mò però stann’accumminciann’à turnà tutte quant’ é ccase llore . Nun ce sta cchiù quasi nisciuno mmiez’a via.
E’ Nnatal’oi Fra’”.

“Cià Bbarò”, feci, rivolto a Gnicchi Gnacco che beveva l’anice, al banco, dopo il caffè corretto”.

Mi rispose con un cenno della mano e il suo sorriso da scimmia.

Gnicchi Gnacco, detto ‘o Bbarone, era un ladro di auto.
In genere rubava, su richiesta, autoradio, accessori, il treno di gomme e, raramente, su particolari commissioni, l’auto intera.
Per sé teneva soldi e valori quando li trovava, dimenticati dai proprietari e dai passeggeri nelle vetture.
Non parlava quasi mai, rispondeva a gesti e con smorfie del viso, simili a sorrisi. Per questo lo chiamavamo anche ‘a scigna, la scimmia.
Era uscito dall’ospedale da poche settimane. Era stato accoltellato all’addome da un automobilista che lo aveva sorpreso a scassinare la sua macchina.
Aveva fatto l’errore di sconfinare a San Giuseppe Vesuviano. Senza un palo. In un quartiere che non conosceva bene.
Era sempre indebitato e sempre con brutta gente Gnicchi Gnacco. E quella sera dovette scegliere tra la coltellata probabile di un automobilista e una rivoltellata alle gambe, sicura, dai comparielli del suo creditore.
Era un amico e un bravo ragazzo. Ci conoscevamo dalle elementari.

Dopo il cenno con la mano, incredibilmente mi parlò:

“Friarié”,
a volte mi chiamava così e ho sempre pensato che fosse un epiteto dispregiativo, ero uno dei suoi pochi amici onesti,
“t’aggio vist’aiere ca accumpagnav’ à Silvana, a cumpagna toja é Puortici.
Statt’attient’ Friarié, Mariano, o’ nnammurat’è nu bravo guaglione e n’amico. Nun t’atteggià troppo e nun te n’apprufittà é ll’amicizia”

Ora, c’era una reciproca simpatia tra me e Silvana. Era la mia compagna di banco e il pomeriggio a volte la invitavo a studiare da me, al ritorno dal Liceo, da Napoli.
Era una bella ragazza, minuta, lunghi capelli castani, morbidi di seta, con degli occhi splendidi, luminosissimi.
Mi piaceva, certo.
Quando le stavo vicino, tenendola per mano al ritorno da scuola, o quando, seduti in camera mia facevamo insieme la versione di greco, le teste chine sul vocabolario, il profumo degli aliti che si scambiavano caldi, e i suoi occhi grandi, sgranati, che mi fissavano ansiosi,  una sensazione di estasi pervadeva il mio corpo e un germe di felicità si svelava nella mia anima.


Tre.


Ne ero turbato, ma non ne ero innamorato, o almeno non ne avevo la percezione.
Provavo un piacere immenso quando ero con lei e le giornate, mi erano lievi, belle.

“Baro’, ma  pecché nun te faje è cazzi tuoje? Staje vevenno, e bbive e nun romper’o cazz’! Silvana e io jamm’a scola ‘nsieme, sturiamm’ nsieme, è normale.”

“Vabbuò, oi’ Fra’, t’aggio sul’avvisato.
Guagliù, me ne vac’, auguri ”.

In quel momento si sentirono fermarsi due moto sulla piazzola.
Entrarono Ninnone e ‘Aitano cap’é mbomba, due vigili urbani del paese:

“Barò buonasera e auguri.
Addò vaje?”

Era Aitano cap’é mbomba a parlare, rivolto a Gnicchi Gnacco.

“Che r’è Aità, nun pozz’fa dduje passi primm’é turnà a casa mia?”

“Bbaro’, stasera nunn’è serata. Sto ‘ncazzato, è viggilia e io torn’a casa all’unnice. Nun fa strunzate, verimm’é nun passà a nott’é Natale ‘n’ galera, pecché,  si te ‘ncoccio, primm’ te spacc’à capa, po’ te port’a quistura senza passà p’o’ spitale.”

“E che cazz’, staje semp’é ‘na manera?
E’ Natale Aità. Auguri, nun te preoccupà. Stasera nunn’arrobb’,è festa pure pe mmé.”

Gnicchi Gnacco uscì.

Aitano cap’è mbomba era chiamato così per il suo aspetto tarchiato e con il capoccione, ma soprattutto perché da ragazzo, quando si azzuffava, stendeva l’avversario con una capata “é primma”, improvvisa.
La sua famiglia aveva un bancariello ben avviato di sigarette di contrabbando, che riforniva tutto il paese. E anche lui le aveva vendute fino a quando, vinto il concorso, era entrato nella Polizia urbana
Una volta, quando non era ancora vigile urbano, mi aveva difeso riempiendo di botte e capate tre tamarri che cercavano la rissa.
Ninnone, il suo nome era Vincenzo, era un lontano cugino di mio padre, per parte di nonna, era un graduato, con lui non avevo molta confidenza.

Battista andò al juke box e mise un disco, si intitolava “Flash”.
Era un brano solo strumentale, nuovo, molto mosso, trasmetteva energia.
Pensavo a Silvana, alla sua cena di Natale, a quando l’avrei rivista a scuola, dopo l’Epifania.
E sorridevo.

“Ciccio! Staje durmenn’? Vuò fà benzin’é mmotociclette! O ce vuò fa passà Natale ccà cu tté?”

Era Ninnone.

Rifornii le due moto, mi pagarono.
Ci abbracciammo e baciammo con tutti e due augurandoci reciprocamente buon Natale.
Misero in moto. 
Ancora un paio d’ore e poi sarebbero stati a casa per il cenone.
Faceva molto freddo e il vento era diventato più violento.
Tenevo addosso un giaccone americano pesante comprato a Pugliano, a Resina, tremavo.
Restai fuori a respirare ancora il profumo dell’aria di montagna.
 Alzai gli occhi, nel buio si intravedeva il profilo della cima del Monte Somma, che nascondeva alla vista il Vesuvio.
La neve che lo copriva emetteva una luce opalescente, spettrale.
Mi accesi una nazionale.
Era il massimo che potevo permettermi.
Guardavo la Strada nuova e, in fondo, il capannello che si faceva sempre meno numeroso.
Guardavo la statale, dalle luci più fioche. Completamente vuota a perdita d’occhio.

Andavo alla pompa di benzina il sabato e la domenica, quando era turno di apertura. Ci lavorava Battista, l’amico mio, e lui aveva parlato con il padrone, che mi conosceva come un bravo ragazzo e fu lieto di darmi quel lavoro.
Mi ero offerto io di fare il turno di notte.
L’ipocrita felicità forzata di queste ricorrenze mi deprimeva: Natale, e ancora di più san Silvestro con i suoi spumanti o champagne, gli abbracci e i suoi botti.
Mia zia Carmela, che abitava a due passi, mi fece sapere che all’ora del cenone mi avrebbe fatto portare gli spaghetti a vongole appena fatti e un po’ di baccalà fritto per secondo.
Il panettone lo avevo lì, al bar della stazione di servizio.
Non bevevo vino allora.

Quattro.

Mi passò per la mente l’ultimo giorno prima delle vacanze, all’uscita di scuola.
Silvana era più avanti, le ragazze uscivano cinque minuti prima, Peppe, un altro mio compagno di classe, scendeva le scale a fianco a me.
Ridacchiando mi disse:

“E’ inutile che fai, non t’illudere, Silvana è di Mariano.”

Questo Mariano neppure lo conoscevo, lo avevo solo visto in una fotografia che Silvana aveva mostrato a me e ad Angela, una nostra compagna, anche lei di Portici.
Me ne aveva parlato qualche volta, al ritorno da scuola. Era di tre anni più grande di noi, studiava Architettura e veniva dall’istituto tecnico.
Quando parlava di lui, notavo, o mi piaceva notare, o volevo notare, che Silvana lo faceva non dico con freddezza, ma certo non con l’emozione con la quale si parla del ragazzo che si ama:  i suoi occhi, sempre luminosissimi, rimanevano distratti e raccontava di lui come se parlasse di cose ordinarie, tipo i suoi rapporti con sua madre o con sua sorella.
Si entusiasmava molto di più quando parlava delle vacanze o di un sette preso alla versione di Greco.
Un giorno alla lettura dei voti voti della versione, lei sette, io otto, mi si buttò addosso nel mio banco e mi baciò, davanti a tutti, sotto lo sguardo imbarazzato del professore.
Poi lo guardò sorridendo e gli disse,

“Mi scusi professore, non voleva essere un gesto sconveniente il mio. E’ che abbiamo studiato insieme.”

E si voltò ancora verso di me fissandomi con i suoi occhi che brillavano.
Fu l’unica volta che mi baciò.
Non mi ero mai fatto illusioni. Non me ne facevo.
Nessuno si era mai messo con una compagna di classe. Le ragazze preferivano i ragazzi più grandi e io sapevo che per me qualunque partita era persa.
Ma gli occhi di Silvana, la sua voce, il profumo dei suoi capelli, del suo corpo, quel lievissimo e discreto sentore di sudore i pomeriggi estivi di fine anno scolastico, a casa mia, più raramente a casa sua, sono ricordi e sensazioni che porterò con me tutta la vita.
Fu lei la prima volta a chiedermi se volevamo studiare insieme. In Latino e Greco faceva più fatica di me e mi confessò che le avrebbe fatto piacere se avessi accettato.
Ho sempre voluto pensare che lo fece solo perché insieme si studia meglio.
Angela, un giorno mi sorprese in classe che le cingevo la spalla con il braccio, leggendo insieme dallo stesso libro, i volti e le bocche vicinissimi.
Mi disse velenosa:

“Franco, non ti frusciare. E stai attento, anche i professori si stanno accorgendo di voi.”

Non mi frusciavo. Non mi ero mai frusciato. Però davvero, una mattina, uscendo dall’aula dopo la lezione, la professoressa di chimica mi incrociò nel corridoi e mi chiese:

“R. mi scusi l’indiscrezione, ma lei e Silvana M. state insieme? Siete molto belli nel vostro banco.”

Il  nostro banco era in prima fila. Proprio di fronte alla cattedra.

Quando capitava che non studiavamo insieme e ognuno tornava a casa sua, appena finivo di mangiare, arrivava la telefonata di Silvana.
E ci richiamavamo più e più volte.
Parlavamo per ore. Confrontavamo le versioni e lei mi parlava sé, della sua giornata, di sua sorella, di che musica ascoltare, di tante cose.
Mai di Mariano.
La sua voce cristallina e melodiosa era dolcissima.

“Fra’ se so’ fatt’é ddieci. Io me ne vac’a casa.”

Battista mi abbracciò. Ci baciammo.

“Auguri Batti’. Salutam’a tutte quant’, e dà nu vas’a Rosetta pe mmé.”

Salì sulla moto e si avviò.

Mentre lo guardavo allontanarsi lungo la strada nuova, nella piazzola si fermò un pullman della Vesuviana. Era l’ultimo pullman da Napoli. Ne scese l’autista e i soli tre viaggiatori.
Entrarono, chiesero un caffè e andarono alla toilette.
Gli preparai i caffè, scambiammo quattro parole.
Erano tre addetti alle pulizie di un palazzo di uffici a Napoli. Avevano finito tardi e tornavano giusto in tempo per il cenone.
La corriera ripartì.

Arrivò Anna con i piatti caldi degli spaghetti e del baccalà ben stretti in un fagotto fatto con una tovaglia rossa.
La ringraziai. Ringraziai zia Carmela. La baciai raccomandandole di rientrare subito a casa, ché faceva freddo.

Alle undici non c’era proprio più nessuno.
Mi rilassai sulla poltrona al banco della cassa prima di mangiare.

Entrò Gnicchi Gnacco, affannato, con un autoradio sotto braccio e un sacchetto in mano.

“Barò, ma che sfaccimm’é cumbinato? Si t’acchiappavan’ Aitan’ e Ninnone, stavota veramente te spaccavan’a capa. E si te’ncucciav’o padrone r’a machina t’abbuscav’ n’ata curtellata. Strunz’.”

“Fra’ nun m’ha visto nisciuno, t’o’ ggiuro!”

“E mo’ che faje ccà, che vuò a me? Tien’addò ji?”

“No Fra’, sto ssule. Int’a machina  ce steva stu sacchett’é noci,” Con il suo sorriso da scimmia.


Apparecchiai su un tavolo del bar con la tovaglia rossa del fagotto.
Presi dei piatti di carta e delle posate di plastica.
Ci sedemmo.
Scoprii il piatto di spaghetti ancora fumante e il baccalà.

“Buon’appetito e auguri Barò.”
“Auguri Friarié”.

(Milano, novembre 2011)

domenica 18 novembre 2012

Ritratti ad acquerello


6. Bianca. Il mio amore per la matematica

Quella mattina d’inverno c’era sciopero e manifestazione dei fascisti. Davanti al Genovesi c’era un picchetto composto da mazzieri venuti da fuori e dai pochi fascisti del nostro liceo.
Quasi tutti gli studenti quel giorno, compresi i miei compagni, avevano preferito fare filone ed evitare rischi di mazzate.
Io, per coerenza e, lo ammetto, per stronzaggine, per confermare la mia immagine di compagno duro e puro avevo deciso di entrare lo stesso, fottendomene dei fascisti e forzando il picchetto. In verità contavo sul fatto che nel picchetto c’era qualche mio compagno di classe e che godevo di un certo rispetto, per cui sapevo che la probabilità di prendere mazzate era piuttosto bassa e comunque trascurabile rispetto all’enorme guadagno in termini d’immagine.
Così entrai.
Aveva cercato di fermarmi Tatà, uno dei cosiddetti “fratelli vaccarielli”, l’altro era Enzo, il più piccolo. Era finita con uno scambio di schiaffoni, uno preso da me, ma due presi da Tatà. Il quale, come avevo giustamente calcolato, quando vide i suoi camerati venirgli a dare man forte disse loro di allontanarsi, che con me se la sarebbe vista da solo. Così dopo la paccariata mi lasciò passare.
Salito in classe, mi accorsi di essere l’unico di tutto il Genovesi che era entrato.
Era l’ora di matematica. Lei si presentò puntuale come sempre nonostante i picchetti e lo sciopero.
Al suo ingresso mi alzai in piedi in segno di saluto, come d’abitudine.

“Non mi aspettavo di vederla stamattina, Romano. Però, forse, a pensarci bene, mi sbagliavo.”

Sedette in cattedra e prese lentamente un libro dalla sua borsetta di pelle nera.

Era una donna di più di cinquant’anni, Bianca Scognamiglio, aveva un viso che poteva sembrare cattivo a prima vista, ma che guardato con più attenzione e profondità di spirito, si rivelava bello, il viso di una donna che in anni più giovani doveva essere stata molto bella. Era alta e snella per la sua età, ma aveva forme armoniose sia pur pudicamente nascoste da un abbigliamento estremamente sobrio, freddo e formale: tailleur grigio, verde scuro o marrone, twin set di lana, sempre impeccabilmente accoppiati, una collana di perle, scarpe classiche con tacco medio elegantissime.
Aveva gli occhi verdi e occhiali con una montatura nera sottilissima e squadrata.
Tatà, sì quello con cui avevo fatto a mazzate, più di una volta mi aveva confessato che la Scognamiglio spesso sconvolgeva di notte i suoi sogni erotici di adolescente.

Aprì il libro. Era piccolo, dalla copertina lucida, rilegato in pelle.

“Le va se stamattina approfittiamo che siamo soli per leggere e commentare alcuni passi di San Giovanni Della Croce?”

Sorpreso e in soggezione (ero sempre in soggezione davanti alla Scognamiglio), balbettai a voce bassissima

“Veramente sono ateo, professoressa. Non so quanto possa interessarmi”

Mi guardò con i suoi occhi cattivi.

“Le interessa, e poi non faccia il buffone: è troppo giovane per dirsi ateo. Stia attento e ascolti. Dopo, se ci sarà tempo, parleremo di matematica, ma non vado avanti con una lezione in assenza della classe.”.

Così mi sciroppai mezz’ora di letture da San Giovanni Della Croce, di cui confesso non ricordo niente.

Finalmente posò il libro e mi propose:

“Romano, visto che lei non ha problemi con il programma di algebra e sono certa non ha bisogno di chiarimenti o spiegazioni, le va se la faccio un’introduzione alle geometrie non euclidee? Vorrei parlarle della geometria di Lobacevskij.”

Io ero veramente molto bravo e appassionato di geometria euclidea, l’idea che la Scognamiglio mi ritenesse degno di poter andare oltre, mi lusingò e m’inquietò allo stesso tempo.

“Certo, professoressa, risposi, m’incuriosisce sapere che possono esistere altre geometrie.”

Così trascorremmo ben più di mezz’ora in una lezione sulla geometria iperbolica che nulla aveva a che vedere con i programmi.
La guardavo ammaliato e ascoltavo ogni sua parola dalla sua voce roca e seguivo ogni passaggio alla lavagna con una concentrazione che raramente ho ritrovato più avanti negli anni.
Alla fine delle due ore ero orgoglioso di aver capito, di essere stato in grado di seguire i suoi passaggi logici e geometrici.
Di quella mattinata mi è rimasto il ricordo dei suoi occhi, l’unica volta in cinque anni di liceo in cui mi dedicò uno sguardo buono.

Qualche settimana dopo, in un’altra giornata di sciopero, questa volta proclamato dai “Comitati di lotta”, disertai la manifestazione.
Andai alla biblioteca nazionale.
Presi “Nuovi Principi della Geometria con una Teoria completa delle Parallele” di Nikolaj Lobacevskij e cominciai a studiarlo.

Milano 18 novembre 2012.






mercoledì 7 novembre 2012

Ritratti ad acquerello


5. Julia. La parrucchiera russa

Finito.
Lavati, tagliati e pettinati i capelli.
A spazzola stavolta.
E all’improvviso, ho visto nello specchio il viso di mio nonno Francesco, Francesco Romano, come me.
Mi sono guardato incredulo, con attenzione, mi sono concentrato su quell’immagine. Era proprio lui nello specchio, non più io.
Lui a 58 anni.  
Stessa faccia, stessi occhi, stessi capelli bianchi, stessa pettinatura, stesse rughe, stessa espressione severa, stesso sguardo freddo e attento.
“Me so’ fatto viecchio”, ho pensato guardando la faccia di mio nonno nello specchio.
Ma questa scoperta non mi ha inquietato, né mi ha depresso.
Somigliare in maniera così incredibile a mio nonno mi ha riempito d’orgoglio.

“Allora, va bene?”

Era la voce di Julia, la parrucchiera, che mi ha distratto da quei pensieri e mi ha riportato alla realtà.

“Sì, perfetto. Come sempre”, ho risposto con un impercettibile sorriso guardando nello specchio i suoi occhi di ghiaccio, di quel celeste che hanno solo gli occhi delle donne russe, così come un particolarissimo verde bottiglia caratterizza gli occhi delle ragazze irlandesi.

E’ poco più alta di me Julia, capelli biondi chiarissimi, occhi celesti, magra come può essere magra una donna russa intorno ai 40 anni, dalle forme armoniose, ma che esprimono forza.
Da un paio di anni vado nel suo negozio di parrucchiere a tagliarmi i capelli.
Ricordo la faccia che fece la prima volta, quando, mentre con cura meticolosissima mi stava sistemando le basette, mi rivolsi a lei in russo, chiedendole di che regione fosse.
Avevo capito dall’accento inconfondibile che doveva essere russa o ucraina.
Trasalì un attimo e fissandomi con i suoi occhi penetranti come spot di un laser che ti colpisce fino al profondo dello spirito, mi chiese in italiano come mai conoscessi il russo. Le risposi che lo avevo studiato ai tempi dell’università, del politecnico, che avevo studiato su testi russi di matematica, sul Demidovich.

“Il Demidovich! Anch’io ci ho studiato analisi matematica all’università a Pietroburgo, ma lei è un matematico?”

“No, sono ingegnere”

“Anch’io sono ingegnere, ingegnere minerario.”

“Io, meccanico e nucleare. E com’è che fa la parrucchiera qui a Milano?”

“Sono della regione del Caspio, ai confini con il Kazakistan, una regione ricca ai tempi dell’Unione Sovietica.
Quando ero ragazza ricordo che con mia mamma, con pochi soldi e senza problemi, potevamo permetterci di andare in aereo ad Alma Ata o addirittura a Istanbul a fare compere.
Dopo il liceo ho vinto una borsa di studio alla facoltà d’Ingegneria dell’Università di Pietroburgo. Sono stati anni bellissimi.
Finiti gli studi sono tornata al mio paese sul Caspio, ma eravamo precipitati tutti in una povertà senza speranza. Niente più fabbriche, miniere abbandonate, né ero riuscita ad ottenere il permesso di lavoro per andare a Mosca o tornare a Pietroburgo.
Con un’amica sono venuta in Italia, all’inizio solo per guardarmi intorno.
Poi ho conosciuto Antonio e l’ho sposato. E ho aperto questo negozio di parrucchiere.”

Così, circa una volta al mese vengo a passare un’ora da Julia, che mi sistema i capelli e parliamo di letteratura russa, di Dostojevsky, di Tolstoi, degli autori moderni o delle differenze di modo di vivere, della situazione politica, in Russia e in Italia.
Lei mi racconta delle bellezze del suo paese.
Quando parla di Pietroburgo le si illuminano gli occhi, quegli occhi celesti di ghiaccio, eppure così vivi e penetranti e se le parlo di cantieri in Kazakistan, di Alma Ata, dell’inverno sul Caspio, in quegli stessi occhi colgo un impercettibile velo di malinconia.

“Forse prenderò la cittadinanza italiana -  Mi ha detto questa mattina salutandomi, - sono sposata, vivo e lavoro qui da oltre 10 anni, posso ottenerla”.

“Eppure se non ricordo male, mi aveva detto che ha voluto che sua figlia, pur nata in Italia, avesse la cittadinanza russa, della sua famiglia”.

Mi ha guardato con il suo sorriso impercettibile e negli occhi quel velo di malinconia.

“Alla prossima”

“Alla prossima, arrivederci”.

(Milano, 7 novembre 2012)


domenica 21 ottobre 2012

Ritratti ad acquerello


4. Laurie

La intravidi a un tavolo vicino al nostro. Erano quattro coppie. Non ne avevo percepito subito la presenza. Mi accorsi che faceva parte di quel gruppo quando si alzò e senza chiamare il cameriere andò da sola a prendere una bottiglia di vino e un secchiello con il ghiaccio.
Era di casa Laurie al “Vin sur vin”.
Era la maître di sala.

Ricordo la sera che facemmo la sua conoscenza, forse dieci anni fa ormai. Allora il maître era ancora Mario, un bell’uomo, canuto, francese doc a dispetto del nome, che parlava benissimo l’italiano e si divertiva con noi a chiacchierare degli argomenti più svariati nelle due lingue.
Quella sera, era inverno, eravamo nella sala interna, calda ed accogliente con le sue boiserie e le sue pareti ricoperte di scaffali di legno scuro sui quali erano poste in maniera impeccabile migliaia di bottiglie di vino.
Non venne Mario a prendere la commande.
Si avvicinò al nostro tavolo una ragazza dall’apparenza timida.
Aveva i capelli neri a caschetto, occhi nerissimi.
Il mento a punta e la forma del viso, spigolosa e dolce allo stesso tempo, rendevano grandissimi quegli occhi.
Era di altezza media, il corpo magro, ma neanche tanto, le spalle strette, in armonia con i piccoli seni, mai ostentati.
La sua pelle era di un colore ambrato
Aveva insomma una sua grazia particolare.
Quando ordinammo, la sua timidezza apparente si trasformò in una garbata freddezza di sublime professionalità.

“Bien, c’est parti!”

disse usando la frase di rito di Mario quando aveva completato le ordinazioni, e ci offrì dello spumante come aperitivo.
Trascorremmo una bella serata, la cena fu squisita come sempre, e come sovente accadeva, alcune portate rasentarono il sublime.
Il servizio di Laurie fu impeccabile. Tuttavia freddissimo.
Mi piaceva la professionalità spinta di quella ragazza.
Quando, pagato il conto, ci salutammo, le dissi che era nuova del “Vin”, lei mi rispose di sì e che aveva un contratto di sole cinque settimane. Capii dal suo modo di porsi che sapeva che eravamo vecchissimi clienti, ai quali la proprietà teneva molto.

Passarono un paio di anni. Mario lasciò il “Vin” e aprì un ristorante a Parigi.
Per qualche mese condusse il bistrot direttamente Franck, il proprietario. Poi, una sera d’estate, eravamo a un tavolo in terrazza, comparve lei, Laurie.
Ci riconobbe, ci sorrise.
Intendiamoci, “sorrise” è una parola forse troppo confidenziale, diciamo più correttamente che ci rivolse uno sguardo cordiale.
Aveva i capelli lunghi, non più a caschetto e la sua pelle era ancora più bruna.
Era lei il nuovo maître al posto di Mario.
Il suo ritorno però suscitò l’invidia dei due camerieri più anziani, che aspiravano a loro volta alla promozione. E invece era stata richiamata quella ragazza che due anni prima aveva lavorato con un contratto a termine.
Fu forse quello il periodo migliore e di maggior successo del “Vin”. Eppure talvolta percepivo una fortissima tensione tra Laurie e i suoi sottoposti.
Lei era bravissima.
Quella ragazza minuta con gli occhioni neri, che non alzava mai la voce, con toni pacati ma freddissimi e che non ammettevano replica, faceva marciare il locale a livelli di altissima qualità.
Entrammo in confidenza, d’inverno cenavamo lì tutte le volte in cui arrivavamo a Nizza e d’estate prendevamo l’aperitivo quasi ogni sera e spesso ce lo offriva.
Ci raccontò un po’ di lei, che era della Martinica, che aveva studiato moltissimo e preso il diploma nei migliori istituti alberghieri di Francia, che un giorno sarebbe ritornata nelle Antille, dai suoi.

Mi sembrò strano vedere Laurie in veste di cliente e non di maître. Quando ripassò con la bottiglia e il secchiello del ghiaccio, ci riconobbe e ci sorrise, e stavolta era un vero sorriso.
E la vedemmo spigliata e naturale e la sentimmo ancora ridere e sorridere con i suoi amici.
Mi rivolse uno sguardo ammiccante e, mostrandomi la bottiglia di vino, disse

“oggi basta essere seri, Monsieur Romano, non lo sono io, non lo siate neanche voi. Beviamo insieme.”

E rideva. E rideva.

Finirono di cenare. Laurie si alzò e si avvicinò a me per salutarmi. Con mia enorme sorpresa mi abbracciò e mi baciò.
Mi sussurrò:

“E’ la mia ultima sera a Nizza. Torno in Martinica. E’ stato bello conoscervi.”

Mi baciò ancora. Poi prese il casco.
Si avviò verso la moto, che teneva come sempre parcheggiata sotto un albero di fronte. Mise in moto.
Partì. Senza voltarsi.

Nizza, agosto 2010. Milano, ottobre 2012.




sabato 20 ottobre 2012

Ritratti ad acquerello

3. La spacciatrice di pane


Uno dei momenti più piacevoli della giornata, quando sono in Francia, soprattutto d’estate, è andare a comprare la baguette o la michette da quella che chiamo la mia spacciatrice di pane.
E’ una vecchia bottega di panetteria artigianale, a circa 300 metri da casa mia.
Certe mattine, poco prima delle undici, scendo di casa, esco dal portone sulla strada assolata, mi porto dal lato in ombra, e cammino a passo lento, godendomi l’aria sempre un po’ fresca, per il tiraggio che fanno queste lunghe traverse che degradano molto lentamente fino al mare.
Sapere che sto andando a prendere il pane mi mette subito di buon umore.
Il bello della vita qui è godere le piccole cose, in un edonismo minimalista che sembrerebbe contraddire la fama snob di questi luoghi.
Se il cielo è un po’ coperto, l’atmosfera è ancora più gradevole.
Raggiungo il primo incrocio, guardo la lavagna del bistrot di fronte, sulla quale è scritto il piatto del giorno.
La leggo con attenzione e curiosità, anche se non ho in programma di pranzare là, commento tra me e me la proposta, un auspicio per la giornata, attraverso la strada e continuo a camminare.
Passo davanti al negozio di fiori e al negozio di strumenti musicali, guardo in un'altra traversa in fondo alla quale è un piccolo supermarket, una superette, come dicono qui, pensando se mi serve qualcos’altro.
Poi vedo la bottega, di vecchio panettiere, con le sue boiserie rosso ciliegio, fuori il banchetto con “Nice matin”, e il profumo del pane appena sfornato.
La panettiera, la mia spacciatrice di pane, è una donna sui quarant’anni, dall’aria di scoppiatona di una volta, a metà tra Zola e Kerouac. Il viso non è bello, ma ha un che di piacevole, con quel suo aspetto drogato, precocemente invecchiato.
Mi piace immaginarla giovane hippy, strafatta di qualunque cosa, che a una certa età col suo compagno ha rilevato la panetteria.
Dentro la bottega, alle spalle del banco, i ripiani di legno sui quali è il pane: pane di campagna, bianco e nero, in pagnotte piccole e grandi, pane ai cereali, ma, soprattutto, baguettes e il loro capolavoro, le michettes.
Ma le michettes sono sfornate solo alle undici e solo pochi pezzi, per cui se si arriva troppo presto c’è da aspettare, se si arriva magari già solo alle undici e dieci, non se ne trovano più.
Per questo vado verso le undici, e qualche volta aspetto.
Il forno è a vista, dietro al banco. Il fornaio è il compagno della panettiera, anche lui sui quaranta, tatuatissimo, con i capelli lunghi, gli occhi da drogato perso, gentilissimo e simpatico.
Non c’è bisogno di chiedere, la signora mi porge, se c’è, la michette, altrimenti mi fa uno sguardo complice di comprensione e mi porge una baguette.
Caldissima di forno.
Pago.
Saluto.
E piano, molto piano, a passi lentissimi, ritorno a casa.

Nizza, Agosto 2010.

mercoledì 17 ottobre 2012

Ritratti ad acquerello


2. La signora di Borgomanero

Era bruna, occhi neri, capelli lunghi raccolti a coda. Vestiva un jeans, un maglioncino e, sopra, un giubbotto.
La prima cosa che ho notato è che aveva un piercing all’orecchio destro, un anellino con una pallina metallica.
Nonostante l’aspetto e l’abbigliamento giovanile era una signora di più di 35 anni.
Non emanava fascino, non nel senso più comune del termine almeno, ma m’incuriosiva molto e non era per niente brutta, anzi, tuttaltro, era a suo modo attraente, ma solo per chi poteva davvero percepirlo.
L’imbarco sul volo da New York per Milano era stato puntualissimo. Un po’ di ressa per overbooking, ma niente di grave, alla fine tutti avevano trovato posto.
Lei mi era seduta a fianco.
Al principio non mi ero reso conto che fosse italiana.
Non aveva detto una parola e io per discrezione le avevo rivolto solo uno sguardo di saluto a cui aveva risposto con i suoi grandi occhi neri.
Durante il decollo era raccolta, con la testa bassa e lo sguardo fisso sulle sue mani poggiate sulle ginocchia.
Ho avuto l’impressione che avesse paura di volare, ma non percepivo in lei tensione, piuttosto concentrazione pensierosa, volere stare sola con se stessa.
Per due ore ogni tanto la guardavo. Ferma con le mani raccolte e lo sguardo fisso su di esse.
Poi le sono caduti gli occhiali da sole che teneva poggiati sul sedile.
Li ho raccolti.
Glieli ho porti.
E allora il suo “grazie” mi ha rivelato che era italiana.
Aveva  una voce dolce un po’ acuta, che trasmetteva un immediato senso di tenerezza.
Una voce e un tono, però, che non davano spazio ad approcci di conversazione.
Intendiamoci, non era freddezza, anzi, tutt’altro, non era scostante, non so, ma ho sentito subito un senso di rispetto.
E io che sono sì freddo e scostante, ho colto subito la confidenza di quel segnale.
Dopo un’altra ora, mentre guardavo il film, ho sentito di nuovo la sua voce:

“ Mi scusi, può aiutarmi? Non mi funziona la cuffia”.

Le ho sorriso, ho guardato le sue cuffiette. Avevano entrambi gli auricolari rotti.

“Uff, ora devo aspettare che passi la hostess o chiamarla…”

Ne avevo un paio in più, non so perché.
Le ho offerto le mie.
Mi ha sorriso a sua volta, soprattutto con gli occhi.
Sono passate altre ore.
Ogni tanto mi giravo dalla sua parte, la vedevo dormire, sempre col suo giubbotto jeans addosso.
L’ho vista alzarsi per sgranchire le gambe, e tornare a sedersi.
Poi finalmente il linguaggio degli sguardi ha fatto trasparire un minimo spiraglio a comunicare, a parlare.
Mi ha guardato un impercettibile attimo in più di prima, era l’invito.

“ Tutto bene?” le ho chiesto.

“Sì, tutto bene, e lei?”

Adesso aveva bisogno e voglia di parlare, e allora mi ha raccontato del suo viaggio negli USA, del suo compagno, che ci andava spesso per lavoro, ma che per questo non era potuto rientrare con lei, dei posti dove aveva soggiornato.
Ascoltavo. Finalmente rilassata, sorrideva.
Avevamo taciuto rubando solo sguardi per sette ore.
Poi mi ha rivelato di essere un chimico industriale, di lavorare in Brianza.
Le ho detto che sono ingegnere e che anch’io ho lavorato nell’industria chimica per anni.
Si è sciolta completamente. Abbiamo continuato a chiacchierare di tutto, delle nostre vite e delle esperienze di lavoro, per molti versi comuni.
“Lavoro in Brianza, ma sono di Borgomanero”.
Borgomanero, un paese cui sono molto affezionato, che mi ricorda i primi tempi al nord, meno che trentenne, quando ci passavo nei fine settimana andando al Lago d’Orta.

“Io ho un ufficio a Novara”.

Ha subito sorriso, aveva trovato un altro elemento che ci accomunava in qualche modo.
Mentre parlavamo di futuro e di lavoro, l’aereo è atterrato senza  che quasi ce ne rendessimo conto.
Abbiamo raccolto le borse.
L’ho aiutata a tirare giù i bagagli.

“In bocca al lupo” le ho detto, “forse allora le nostre strade s’incroceranno…”

“ Lo spero veramente”…

”buona fortuna”.

La coda per il controllo passaporti era particolarmente lunga e lenta.
Ho sentito alle mie spalle una voce:

“Buona fortuna ancora e…a presto…”

Mi sono voltato, ho visto i suoi occhi fissarmi e un ultimo sorriso.
Poi la coda ha cominciato a muoversi sempre più veloce.

lunedì 15 ottobre 2012

Ritratti ad acquerello


1. Anna del Portnoy 

Era ottobre, a quei tempi tornavo dal lavoro con la metropolitana verde, scendevo a Sant’Ambrogio e prendevo la 96, allora era questo il numero della linea di autobus che percorreva la circonvallazione interna di Milano, oggi è la 94.
Due fermate fino all’incrocio tra via De Amicis, Via Molino delle Armi e Colonne di San Lorenzo, Corso di Porta Ticinese, dove abitavo in una vecchia palazzina.
E proprio all’angolo tra via De Amicis e Corso di Porta Ticinese c’era e c’è tuttora un caffè, il Portnoy.
Tutte le sere, in quell’autunno dolce dell’89 posavo la mia borsa a casa e con la mia compagna andavo a prendere lì l’aperitivo.
Era un caffè letterario, l’atmosfera era molto calda e piacevole, quasi come nell’oleografia della Milano anni ’60, tra tavoli di legno di ciliegio e il lungo banco con gli stuzzichini, sgabelli alti rivolti verso la vetrina che dava su Corso di Porta Ticinese e, al piano di sopra, una bella sala, con tavolini e sedie, sempre di ciliegio, che aveva alle pareti antichi manifesti d’iniziative letterarie e culturali.
Era bella Anna.
Dietro al banco del bar sorrideva ai clienti.
Era alta e la pedana la faceva ancora più alta.
Le forme generose e i capelli, tra il biondo e il castano chiaro, gli occhi, castani anch’essi, avevano la bellezza tipica delle ragazze napoletane.
Perché Anna era napoletana.
Era un appuntamento fisso, verso le sette e mezza.
Sedevamo sugli sgabelli al banco e chiacchieravamo a lungo con lei, che, in tallieur nero, gilet e camicetta bianca, ci chiedeva cosa desiderassimo bere, preparava le bevande con gesti sicuri ed eleganti, agitava il mixer come se quello della bar woman fosse da sempre il suo mestiere.
Ci parlava di lei. Le raccontavamo di noi.
Era laureata in lettere Anna, aveva frequentato il liceo classico, l’Umberto, amava la letteratura. Aspettava l’esito del concorso a cattedre alle scuole superiori e intanto era venuta a Milano. A lavorare al bar.
Al Portnoy.
Noi eravamo tornati da Roma da meno di un anno e tra poco più di un mese avremmo lasciato l’appartamento al Ticinese per traslocare definitivamente nella nostra casa di Porta Genova.
Erano mesi difficili e di avventura, la terza tappa del viaggio della mia vita era ripartita da Milano in un gelido gennaio, con la febbre a quaranta.
Dopo un inverno freddo e duro da tutti i punti di vista, per il corpo e per l’anima, avevamo avuto una primavera dolce e dai colori pastello, tra il celeste del cielo, il verde dei boschi del Parco del Ticino, la quiete dei laghi al sabato e alla domenica.
Il mese di maggio ci aveva regalato il trasloco provvisorio da Corso Italia a Porta Ticinese. E in quel quartiere mi trovai subito a mio agio, come se ci fossi vissuto da sempre: i suoi negozi ancora piccoli e familiari allora, le sue botteghe, i suoi caffè, le sue osterie erano un mondo lontano dai Banchi Nuovi a Napoli, dove ero nato e cresciuto, eppure mi sentivo benvenuto e accolto con calore. Insomma, ci stavo proprio bene. Perfino l’unico ristorante cinese non guastava l’atmosfera tutta milanese, esattamente come uno la immagina.
E così prendemmo l’abitudine la sera, al ritorno dal lavoro, di andare al Portnoy. E con Anna, non solo perché napoletani, ci fu subito un idem sentire, si parlava di letteratura, di filosofia, dell’attualità del Paese e di Milano. Si parlava poco o niente di Napoli. Come se un pudore particolare ce lo impedisse.
A novembre traslocammo a Porta Genova.
A gennaio Anna tornò a Napoli.
Anni dopo siamo tornati al Portnoy, che intanto era diventato uno dei caffè più famosi di Milano.
Era gestito da un ragazzo indiano.
Si mangiavano ottimi panini.
Si beveva un’eccellente birra.
Mancava Anna.

Milano, 15 ottobre 2012.


sabato 6 ottobre 2012

Una giornata di primavera


Era una bellissima domenica di maggio.
Eravamo a Napoli, ai “Cavalli di bronzo”, davanti al Maschio angioino.
C’era quell’aria di primavera e quei colori che non ho mai più ritrovato in nessun’altra parte del mondo.
Colori pastello illuminavano l’aria.
Di solito a Napoli i colori, nelle giornate di sole, sono molto intensi, con forti contrasti su un tono di fondo tendente all’arancione, per via del tufo. Ma quel giorno era diverso. Era primavera inoltrata. Da poco eravamo reduci dai guasti fisici e sociali del terremoto, e io e la mia famiglia ne eravamo stati colpiti duramente.
Era il 1981.
Mi ero laureato in ingegneria con 110 e lode da pochi mesi. E da pochi giorni avevo superato, con il massimo dei voti, l’esame di stato per l’abilitazione alla professione.
Mi sentivo l’uomo più potente del mondo.
A dispetto del terremoto.
A dispetto della mia povertà.
A dispetto delle sicure difficoltà che avrei trovato nel cercare lavoro.
Ma a questo avrei pensato da lunedì. Quella mattina io e la mia compagna andavamo a Sorrento per passare una giornata felice. 

venerdì 28 settembre 2012

Autodistruzione



Sparare per gioco
A colpi di fucile
Uccidere animali
In un acquitrino.

Era luglio faceva un caldo secco, piacevole. O almeno, a me piaceva la carezza dell’aria calda sulla pelle e il profumo della terra, dell’erba, degli arbusti cotti dal sole.
Campi di patate, ruscelli, lagni come li chiamavano, e acquitrini.
Il  basso nolano.
Fermammo le biciclette sul bordo della stradina polverosa che avevamo percorso dal paese per attraversare la campagna. Avevamo portato i fucili da tiro. Dei tre io ero quello che aveva la mira migliore.
E. e B. tenevano i fucili in spalla, la canna puntata a terra, io preferivo tenerlo imbracciato.
Soffiava un vento caldo che però non faceva sudare. Si stava bene.
Ci  inoltrammo nell’acquitrino. Indossavamo stivali da caccia. I nostri piedi affondavano nell’acqua fangosa. Nell’aria farfalle e libellule sembravano scintille bianche e colorate.
B. fu il primo a sparare, mancò un rospo che, intuito il pericolo, si era tuffato come un lampo.
Io mirai a una salamandra.
Ferma al sole.
Su una pietra.
A dieci metri da me.
Immobile godevo il calore del sole che permeava tutto il mio corpo.
Silenzio.
Solo cicale e fruscio di vento.
Una farfalla era posata su un papavero.
Le sue ali vibravano.
E. e B. si erano allontanati.
Presi la mira.
Lentamente.
Calcolai la parallasse. La deviazione del rinculo. Il tremito del braccio per lo sforzo del dito che avrebbe premuto il grilletto.
Sparai.
La feci secca. Spaccata in due.
E. e B. sentito lo sparo tornarono verso di me. Ridevano.
Io mi godevo il sole e l’odore di umido dell’acquitrino.
In fondo a un sentiero c’era una costruzione. Un capanno in muratura.
Mi avviai.
Vidi E. e B. indugiare. Non volevano seguirmi.
“Beh, allora? Venite o no?  Staremo un po’ al fresco lì dentro.”
Si avvicinarono strani, loro conoscevano quei luoghi. Io venivo dalla città.
Mi rivelarono che una diceria popolare voleva che in quel capanno fosse morto un uomo, il cui cadavere però non era mai stato ritrovato.
Per la verità nessuna sapeva neppure se era veramente esistito.
Non ci fu niente da fare. Non vollero seguirmi.
Intanto il sole tramontava.
Il cielo, sereno e limpido, da arancione era diventato rosso e volgeva verso il viola.
E. e B. presero le biciclette e tornarono in paese.
Io, lentamente, mi avviai verso il capanno.
Lo raggiunsi.
Aprii la porta grigia di legno secco e durissimo.
Entrai.

(Milano, settembre 2012)

domenica 22 luglio 2012

Pensieri e sogni di un aedo


Non so dipingere e non so comporre
né so suonare. So soltanto scrivere
Questo so fare, scrivere e studiare.

Vorrei che i miei pensieri di stanotte
Andassero a posarsi su una tela
a combinarsi, leggendomi nell’anima,
in un dipinto che ne esalti la grazia.

Ed i miei sogni tutti componessero
La partitura  di un brano sublime.

(Milano, 1 gennaio 2011)


lunedì 16 luglio 2012

Lost (di Floriana Tursi)



Si perdono le chiavi di casa, l'amore, i treni, le persone, i soldi, le strade e alla fine persino i denti.
Si perde credito, colpi, fiducia, entusiasmo, reputazione e fama.

Si lasciano indietro bellezza, vigore e purezza.

Lo scatto, la fame e il sorriso forte della giovinezza, si stemperano.


È una magia questa, che ci nasconde beni e ricordi, e che li trasforma, che mischia le carte, trova nascondigli e tane per le nostre cose.



È una favola strana, somiglia a quella di Pollicino, le nostre cose diventano tracce, impronte di noi.


Non dico che non sia un gioco duro, colpisce a mano aperta, lascia il segno, fa male; certe volte offusca la vista, saranno gli occhi pieni di lacrime?


Ma dio sa anche che siamo rimasti bambini, alla fine ci restituisce tutto, persino le chiavi di casa, sparite sotto un cuscino del divano. E il puzzle si ricompone in figure diverse e i colori si accendono di toni nuovi, la nebbia si dirada, l'orizzonte si allarga, comprende il tutto.

Floriana Tursi.

sabato 14 luglio 2012

Appunti di giorni passati. Un romanzo d'appendice.


Undici.

Manara commentava lo scorrere delle slides sullo schermo. Stava illustrando a me, ad alcuni altri funzionari della Commissione Europea e ai Capi del dipartimento salvaguardia ambientale della Polizia francese, l’arma definitiva contro il traffico internazionale di rifiuti, un colpo mortale alle ecomafie: il sistema di tracciatura satellitare dei flussi di rifiuti.
Guardavo lo schermo e i colleghi con la mia solita aria distratta e indolente. C’erano abituati, a cominciare da Manara. Ma stavolta ero distratto e deconcentrato sul serio. La mia mente vagava tra quello che ricordavo sommariamente dei sospetti trafficanti, di cui mi aveva parlato Chébel,  che mi temevano  e per questo potevano trasformarsi in un pericolo mortale per me, e immagini varie, diverse: l’aria delle prime ore del mattino a Ischia, i capelli di Silvana, il profumo del mare d’estate la sera, scendendo dal traghetto a Pozzuoli.  L’odore delle angurie davanti ai chioschetti nella brezza notturna.
Le immagini erano interrotte dal pensiero della telefonata di poco prima: che voleva Nino da me? E Diego Sparagnini? Mancavo da troppo tempo da Napoli e da quell’ambiente per ipotizzare la più grossolana delle illazioni. Scacciavo via come si fa con una mosca molesta il pensiero che potesse esserci un collegamento tra Nino, Sparagnini e le rivelazioni che mi aveva fatto Chébel.
Ma tra un sole rosso, che tramonta dietro l’Esterel, e gli occhi di Silvana, irrompeva sempre quell’idea maligna, le parole di Nino, le parole di Chébel.
“Sono paranoico.
Sono paranoico?
Un po’ lo sono sempre stato.
Ma cosa potrebbe mai volere da me Nino? E proprio ora. Coincidenza? Forse…”. 
Pensavo.   

(Continua)

martedì 10 luglio 2012

Elegia per un amico.


(A Sergio)

Ti ho sentito cantare una canzone francese.
Sorridevi felice. Regalavi poesia.

In piedi al pianoforte eri musica e uomo,
eri padre e poeta e pietra preziosa.

Ogni parola tua, ogni sorriso e sguardo,
e gli occhi penetranti, entravano nell’anima.

Così ti ho conosciuto una tiepida sera.
Primavera, a Milano e Diana e la tua casa.

Parlando di teatro, di musica, di canto,
io, solitario e cupo, in te trovai un amico.

Insieme a te viaggiavo in campi immensi d’arte,
in miniere di versi, in boschi di cultura.

La tua voce guidava, calda, ipnotizzante,
in passeggiate amene lungo freschi ruscelli.

Mi resta il tuo sorriso, la tua autorevolezza,
i tuoi occhi, il ricordo dei nostri discorsi.

Un unico rimpianto, ti ho conosciuto tardi,
ma l’amicizia è stata un dono inestimabile.

Ogni parola tua ogni momento insieme
in questi, pochi, anni mi ha arricchito lo spirito.

(Milano, 10 luglio 2012)

Questi distici elegiaci sono dedicati a Sergio Ceni. 

martedì 26 giugno 2012

Appunti di giorni passati. Un romanzo d'appendice.


Dieci.

Alla stazione di Valenciennes trovai Manara che mi aspettava. Andammo in un bistrot, ancora inzallanuto dal sonno presi un cafè crème e un  croissant caldo. 
Conoscevo Manara da alcuni anni. Era più un commerciale che un vero ricercatore. Sapeva presentare e vendere molto bene la sua sofisticata merce tecnologica. Lavorava per un piccolo ente di ricerca francese all’avanguardia sui sistemi d’intercettazione satellitari e in generale sui sistemi elettronici e telematici avanzati. Sono convinto che facessero anche ricerche militari segrete. Ma né da Manara , né dal suo collega Hasse, un martiniquais  di colore, era mai filtrata nessuna indiscrezione in proposito.
Ci stavamo spostando in macchina verso gli uffici, dove avremmo tenuto la riunione, quando mi suonò il cellulare. Non riconoscevo il numero, ma era un telefono italiano, +39081…, la chiamata veniva da Napoli.
Risposi.

“Sì? Sono Toscano…Nino? Uà é comm’é fatt’à avé o nummero d’o cellulare mio? Mi fa piacere sentirti…quanti anni…lo so che manco io da Napoli da tanto…è vero. Come stai? Come mai mi hai cercato?"

“Tutt’a posto, e tu staje bbuono?...Senti Edo, ti ho chiamato perché…ti ricordi di Diego Sparagnini?”

“Quel nostro vecchio compagno di liceo e del collettivo studentesco? Ma non era passato alla destra, non è assessore regionale?”

“Sì, Edo, proprio lui. Sai è sempre un amico…”

“E allora? “

“ Mi chiedeva se nel caso passi da Napoli, se ti farebbe piacere prendere un caffè insieme o, meglio ancora, cenare insieme.”

“Sì, volentieri, mi fa piacere rivedervi…solo che è  un po’ difficile, non ho proprio in programma di venire a Napoli a breve.”

“Se ti è più facile, potremmo venire noi a Milano o a Torino…o anche a Bruxelles. Ci farebbe veramente piacere se tu ci dedicassi un po’ del tuo tempo."

(continua)




lunedì 25 giugno 2012

Appunti di giorni passati. Un romanzo d'appendice.



Nove.

Sono sempre stato un uomo di indole molto mite. Fin da piccolo ho amato leggere, studiare. Le ore trascorse al tavolo concentrato su un testo di filosofia greca o su un teorema di geometria, quelle disteso a letto, su una spiaggia o su un prato all’ombra di un albero a immergermi in un romanzo, sono tra i ricordi più belli della mia adolescenza e della mia gioventù. I dibattiti accesi sulla superiorità di un poeta o di uno scrittore, le sere d’estate nei teatri greci ad assistere alle rappresentazioni di tragedie e commedie classiche.
Dalla fine del liceo non ho più frequentato il mio quartiere, e dopo l’università ho lasciato Napoli.
Ho cominciato a girare il mondo e le cose che pesavano di più nei miei bagagli erano i libri che mi portavo dietro, ai quali si aggiungevano quelli che compravo nei paesi di cui conoscevo la lingua.
Nonostante le zuffe da ragazzo, non sono mai più stato una persona violenta, ho sempre seguito comportamenti ispirati alla massima educazione, alla serietà e al rispetto di regole e costumi dei paesi che mi ospitavano.
La “molletta” da quarant’anni era ormai solo un amuleto e il ricordo di un amico d’infanzia sfortunato.

Alle sei e mezza del mattino, dopo una notte quasi di solo dormiveglia, mi alzai, riempii la vasca e feci un bagno tiepido per rasserenarmi e riflettere con più lucidità.
Alle otto e mezza dovevo essere alla Gare du Nord per prendere il treno per Valenciennes, dove avevo appuntamento con Giorgio Manara un ingegnere che da molti anni viveva lì e lavorava in una società di ricerca nel campo della telematica. Mi doveva presentare un nuovo prodotto che permetteva la tracciatura dei flussi di rifiuti con un’affidabilità e un’accuratezza mai ottenute fin allora.
Feci colazione nel bistrot dell’albergo e presi il metro per raggiungere la stazione. Pensavo a come potessero essere organizzati gli uomini dei Servizi Francesi che mi tenevano sotto controllo, un po’ scorta e un po’ spie, e mi divertiva immaginare come stavo loro complicando la vita spostandomi in metro invece che in macchina.
Salii sul treno, un Corail Parigi-Lille. 
Complicazione ulteriore per i miei amici-angeli custodi: avevo deciso di viaggiare in seconda classe. Non per avarizia, perché mi piaceva stare tra la gente comune, osservarli, ascoltarne i discorsi, chiacchierare se ne presentava l’occasione. E certo questo non era il meglio come comportamento di un pedinato-protetto. “Saje é jastemme”, pensai in napoletano ridacchiando.
(continua)

sabato 2 giugno 2012

Appunti di giorni passati. Un romanzo d'appendice.

Otto.


Niente da fare, non riuscivo a dormire.
Ormai albeggiava. Aprii la finestra e lasciai entrare il profumo dell’aria fresca e i rumori della città che si sveglia freneticamente, secondo il suo stile, da sempre.
Sorrisi, mi passò per la mente una canzone di infiniti anni fa: “Il est cinq heures, Paris s’eveille”,  di Jacques Dutronc.
Riaprii il cassetto. Stavolta non sollevai le camicie per riguardare la molletta.
Presi tra le mani il quadernetto nero. Il Calepino, come lo chiamavo.
Sì, ero solo, fortunatamente, i figli dall’altro capo del mondo non correvano alcun pericolo.
E Silvana.
Parole, frasi e lettere, vere o immaginarie, di quel quaderno, era tutto ciò che mi restava di lei.
Lo aprii, si apriva sempre alla pagina, sulla quale era incollato e piegato in quattro parti, il foglio con l’ultima mail che mi aveva inviato.
Mi tornò in mente il ricordo di una mattina di maggio, una vita fa.
A Ischia.
Quella mattina, dopo aver passeggiato a lungo attraverso la pineta, ero andato a sedermi al tavolo del chiosco davanti a quello che una volta era il carcere dell’isola, sugli scogli della spiaggia dei pescatori.
Il cielo era striato di nuvole.
A sinistra, oltre lo stretto,  al di là del mare, così vicina da poterla toccare, vedevo Vivara.
Di fronte, Il Castello Aragonese, con il suo lungo pontile e il suo riflesso nello specchio d’acqua verde smeraldo.
Nelle belle giornate fredde e terse d’inverno invece amavo andare a Cartaromana, sedermi su uno scoglio a riva e guardare Capri in lontananza.
Come tutte le mattine, avevo con me un libro e quel calepino, dove tenevo appunti. Dove custodivo versi, storie, pensieri. Lettere.
Lettere a Silvana.
Per anni avevo cercato di contattare le due figlie di Silvana, ma si erano sempre negate.
Probabilmente Edoardo le aveva messe in guardia da me.
Perché Edoardo aveva sempre saputo tutto di Silvana e di me, ormai ne ero convinto.
Anche allora aprii la pagina su cui era la mail che lei mi aveva scritto, ormai dieci anni prima.
L’ultima.
E la leggevo.
E le scrivevo.
Spesso.

Quella mattina le avevo inviato i versi di una canzone che tante volte le avevo dedicato.

“J'aimerais quand même te dire
Tout ce que j'ai pu écrire
Je l'ai puisé à l'encre de tes yeux.

J'aimerais quand même te dire
Tout ce que j'ai pu écrire
C'est ton sourire qui me l'a dicté.”

Come ogni giorno da dieci anni, da quando era sparita, glieli avevo inviati con il pensiero, in un ritorno al sogno.
Con tutte le altre lettere.

Poi  avevo richiuso il quaderno.
Lentamente mi ero alzato dalla panchina, gli occhi fissi sul mare.
Un ultimo sguardo al Castello Aragonese.
Mi ero voltato, avviandomi verso la pineta.
Come ogni mattina.

Ma Silvana non era in pericolo.
Silvana non c’era più.

(Continua)















mercoledì 30 maggio 2012

Appunti di giorni passati. Un romanzo d'appendice.


Sette.

Feci una doccia e andai a letto. Per rilassarmi e concentrare la mente su pensieri positivi presi il De Bello Gallico e mi misi a leggere i passi che descrivono la battaglia di Alesia.
Nei momenti difficili leggevo spesso Cesare. Aveva e ha il potere di caricarmi, anche di odio, se necessario, e ridarmi serenità, fermezza e fiducia in me stesso.
E freddezza.
Nel dormiveglia pensando alla giornata, alla molletta, al barone e agli anni della mia adolescenza, mi tornò in mente un pomeriggio d’inverno, all’uscita dal liceo. Degli universitari più grandi di noi, io ero in prima, avevo 16 anni, erano venuti a sfottere le ragazze. Non so, forse fu un’occhiata sbagliata, o forse avrò cercato di difendere una mia compagna, non ricordo, finì che uno di quelli mi aggredì, avevo imparato a difendermi e reagii, comparve Aitano cap’é ‘mbomba, davanti alla scuola, mi riconobbe, si buttò nella mischia, spaccò il naso al mio aggressore e fece saltare due denti al suo compare. Li cacciammo, pesti e sanguinanti.
Da quando ero al liceo non mi capitava più di incontrare Aitano, che vendeva sigarette di contrabbando al Sedile di Porto, detto Cap’é ‘mbomba per il suo capoccione e perché metteva KO gli avversari con la cosiddetta “capat’é primma”, una testata improvvisa, secca, velocissima, a sorpresa, che aveva un impatto devastante sul volto del malcapitato, che ne usciva quasi sempre sanguinante e con il setto nasale spaccato.

domenica 13 maggio 2012

Appunti di giorni passati. Un romanzo d'appendice.


Sei.

Era successo una sera. Avevamo appena finito una partita del torneo di calcio che ogni anno l’Azione Cattolica di Santa Chiara organizzava tra i ragazzi del quartiere.
Avevo 12 anni. Giocavo in una squadra che avevamo chiamato “Artigianedile”, dall’insegna di una bottega di Via Carrozzieri alla Posta. Ci aveva divertito l’idea di prendere un nome a caso.
I nostri avversari erano dei poco di buono del Pallonetto Santa Chiara.
Era stata una partita molto scorretta. Ci avevano riempito di calci, gomitate, spallate e sgambetti. Nonostante tutto, avevamo vinto 2 a 1. Io avevo fatto un’entrata regolare in scivolata nell’area avversaria e avevo rubato la palla a un difensore. Lui si era buttato a terra, ma si era beccato l’ammonizione per simulazione. Da quell’azione era venuto il goal della nostra vittoria.
Tornavo verso casa salendo via Santa Chiara, era ormai buio. Dietro di me, a qualche decina di metri camminavano cinque ragazzi della squadra che avevamo battuto. Sentivo il loro vociare.
Camminavo piano, mi facevano male le gambe. Poco a poco mi raggiunsero. All’improvviso tre di loro mi superarono, mi sentii afferrare da dietro dagli altri due. I tre si girarono, mi vennero addosso e cominciarono a prendermi a pugni e a schiaffi. Strattonai per liberarmi e reagire, ma erano troppi. Dopo avermi riempito di pugni, mi gettarono a terra e mi presero a calci.
Andandosene, mi urlò quello a cui avevo tolto la palla:

“Accussì te’mpare. Avimm' perzo pe ‘mmeza toia. Strunzo!”

Restai a terra dolorante. Stavo cercando di rialzarmi, quando sentii un qualcuno avvicinarsi. Si chinò e mi sollevò la testa delicatamente.
Era ‘o bbarone.

“Ué, bbaro’…” dissi a fatica.

“Calmate, ‘o frà, rispira chiano, nunn’è nniente, é sul’acchiappato ‘na paliata.
Cinch’erano troppi. Ma nun te preoccupà, é 'ttenimme fatte. E’ ssule quistione d’é  'cchiappà a uno a uno, à ssule.
Si l’avessero fatto a mmé, s’à vedevano cu cchesta.”

E mi mostrò la “molletta”. Fu la prima volta che vidi il suo coltello a serramanico. Quello che adesso era nel palmo della mia mano.

“ ‘O fra’, t’aggi’à ‘mparà a avé à cche ffà cu chella ggente.”

O’ bbarone abitava ai Banchi Nuovi, nel mio quartiere. Non ho mai saputo il suo nome, era ‘o bbarone e basta. Lo conoscevo da quando avevo sei anni. Aveva sempre fatto il ladruncolo. Rubacchiava dalle bancarelle, da piccolo. Poi era passato a rubare nelle auto. Tutto quello che per distrazione i proprietari potessero aver dimenticato: soldi, sigarette, preservativi, crick, qualche volta la ruota di scorta. Se andava bene, lo stereo.
Così, mi insegnò a difendermi, a fare “a mazzate”, a dare capate “é primma”, e infine a usare il coltello. Mi insegnò a usarlo per intimidire l’avversario non troppo pericoloso, a colpire per primo l’avversario pericoloso, a colpire brutto l’avversario infame, più grosso e meglio armato.
Per fortuna non mi erano mai serviti i suoi insegnamenti in scontri fisici. Era bastato avere appreso l’attitudine a farsi rispettare per trasmettere un forte messaggio deterrente, e questo in più occasioni, anche da adulto e in età matura.
Imparai anche che con certa gente devi colpire per primo, un solo colpo, violentissimo, unico, risolutivo, one shot, come dicono gli americani, e che se non colpisci tu, è pura illusione pensare che difendendosi, alla lunga, si scoraggi il nemico e lo si neutralizzi.

‘O bbarone, Aitano cap’é mbomba, contiguità di amicizie. Ragazzi border line, come si dice adesso, ma leali e generosi. Pronti a prendere mazzate per difendere un amico.
Guardavo la molletta nel palmo della mano, pensavo a loro, ai miei anni di ragazzo.
Poi andai al liceo, ancora nel quartiere, poi all’università, poi via, all’estero.
E ora eccolo qua il funzionario della Commissione Europea, raffinato, colto, fine, “signore”, dalle origini napoletane. Con la fama di duro contro i crimini ambientali e il traffico di rifiuti.
Avevo bene in mente quello che mi aveva rivelato il capitano Chébel. E capivo benissimo cosa voleva dire. Certo, la protezione a distanza dei Servizi, certo, più avanti, la scorta, ma sapevo perfettamente verso quale destino avevo cominciato a viaggiare. Mi confortava ancora non correre rischi di ricatti o di vendette trasversali contro persone a me care. Semplicemente perché non ne avevo più e i figli erano dall’altra parte del mondo.
Se ero finito nel mirino di organizzazioni camorristiche, non avevo scampo.
Facevo queste riflessioni con calma e freddezza, come se riguardassero un'altra persona.
Guardai ancora una volta la molletta nel palmo della mano.
Ci giocherellavo, la feci saltellare.
Feci scattare la lama. Lucida, brillante.
La impugnai come mi aveva insegnato ‘o bbarone. Rinserrai il coltello.
Lo riposi nel cassetto, sotto le camicie.

(continua)

giovedì 10 maggio 2012

Appunti di giorni passati. Un romanzo d'appendice.


Cinque.

Discutemmo una ventina di minuti. Mi raccontò in maniera un po’ più dettagliata quello che si stava muovendo nel mondo del traffico di rifiuti e i pericoli che me ne derivavano. Mi disse che per il momento la mia situazione non destava ancora preoccupazioni, ché agenti dei servizi francesi mi tenevano sotto controllo con discrezione.
Mi lasciò il numero di un cellulare italiano, raccomandandomi di chiamare nel caso percepissi anche la minima anomalia nella routine che si svolgeva intorno a me.

“Au revoir monsieur Toscano. Ci ritroveremo in Italia probabilmente. E mi saluti il capitano Claudia Somma quando la vedrà”.

Finii di cenare, con calma. Pensieri e ricordi cominciavano a invadermi la mente. Non ero preoccupato, né agitato, la cosa più importante è che non avevo nessuna persona cara, in Italia o in Europa, per la cui sicurezza potessi temere. I miei figli erano uno a Boston, l’altro in Guadalupa, abbastanza lontani e in mondi, dove difficilmente poteva concretizzarsi una qualche forma d’intimidazione trasversale. In ogni caso li avrei avvertiti. Sapevano il fatto loro.
Tornai in albergo a piedi, passeggiando per le vie di Parigi fino a Boulevard Saint Michel. Alloggiavo in un alberghetto proprio di fronte alla Sorbona, ci dormivo dai tempi in cui ero studente, era piccolo e accogliente, con la sua atmosfera anni ‘70, frequentato da studenti, professori e ricercatori. Mi trovavo bene, mi sentivo a casa e così, ancora adesso che ero un alto funzionario europeo, continuavo ad alloggiarvi.
Come sempre, come tutte le sere dalla prima che passai a Parigi quarant’anni fa, mi fermai a prendere un caffè in un locale di Boulevard Saint Michel.
Poi salii in camera.
Non so perché ma la prima cosa che feci fu aprire un cassetto, sollevare le magliette, guardare e toccare il coltello a serramanico, “ ‘a mulletta”, che portavo sempre con me da quando me l’aveva lasciata o’ bbarone, l’amico mio ladro di macchine, la sera che morì accoltellato in Via Santa Chiara, a Napoli.
Aveva rubato uno stereo dalla macchina sbagliata, che apparteneva alla persona sbagliata. Quella domenica sera il figlio di don Ciccio lo aspettò all’angolo tra “o’ vich'è segatura” e Santa Chiara. O’ bbarone non fece in tempo ad aprire bocca, né a difendersi, fu afferrato per le spalle, fatto girare e accoltellato all’addome con un solo colpo profondo e mortale. Mi trovai a passare per caso quella sera, ero andato a comprare le sigarette a mio padre. All’angolo tra Santa Chiara e i Banchi Nuovi c’era l’unico tabaccaio aperto la domenica sera.
Così lo vidi, lo sentii rantolare, a terra con il sangue che scorreva e il viso coperto di sputi, ultimo sfregio del figlio di don Ciccio. Era ancora vivo, corsi in tabaccheria a chiamare un’ambulanza, poi gli tornai vicino, si era fermata qualche altra persona, Santa Chiara era quasi deserta la domenica sera, e pioveva. Mi fece segno di avvicinarmi. Mi chinai su di lui. Gli sollevai la testa. Riuscì a muovere una mano mi poggiò il pugno chiuso nel palmo della mia e mi diede la molletta che vi teneva stretta, il coltello:

“Annascunnatella, tienela tu, Friarié. T…ie..ne..la..tu.”

Conoscevo quella “molletta”, o’ bbarone mi aveva insegnato ad usare il coltello a serramanico quando eravamo bambini. Mi aveva insegnato a difendermi dai ragazzi delle bande del quartiere, “d’é guagliun'é vasci’o’ puorto”, e da quelli di Santa Chiara.
Io ero dei Banchi Nuovi.

(continua)