5. Julia. La
parrucchiera russa
Finito.
Lavati,
tagliati e pettinati i capelli.
A spazzola
stavolta.
E
all’improvviso, ho visto nello specchio il viso di mio nonno Francesco,
Francesco Romano, come me.
Mi sono guardato incredulo, con attenzione, mi sono concentrato su quell’immagine. Era proprio lui nello specchio, non più io.
Mi sono guardato incredulo, con attenzione, mi sono concentrato su quell’immagine. Era proprio lui nello specchio, non più io.
Lui a 58
anni.
Stessa
faccia, stessi occhi, stessi capelli bianchi, stessa pettinatura, stesse rughe,
stessa espressione severa, stesso sguardo freddo e attento.
“Me so’ fatto viecchio”, ho pensato guardando la faccia di mio nonno nello specchio.
“Me so’ fatto viecchio”, ho pensato guardando la faccia di mio nonno nello specchio.
Ma questa
scoperta non mi ha inquietato, né mi ha depresso.
Somigliare
in maniera così incredibile a mio nonno mi ha riempito d’orgoglio.
“Allora, va
bene?”
Era la voce
di Julia, la parrucchiera, che mi ha distratto da quei pensieri e mi ha
riportato alla realtà.
“Sì,
perfetto. Come sempre”, ho risposto con un impercettibile sorriso guardando
nello specchio i suoi occhi di ghiaccio, di quel celeste che hanno solo gli
occhi delle donne russe, così come un particolarissimo verde bottiglia
caratterizza gli occhi delle ragazze irlandesi.
E’ poco più
alta di me Julia, capelli biondi chiarissimi, occhi celesti, magra come può
essere magra una donna russa intorno ai 40 anni, dalle forme armoniose, ma che
esprimono forza.
Da un paio
di anni vado nel suo negozio di parrucchiere a tagliarmi i capelli.
Ricordo la faccia
che fece la prima volta, quando, mentre con cura meticolosissima mi stava
sistemando le basette, mi rivolsi a lei in russo, chiedendole di che regione
fosse.
Avevo
capito dall’accento inconfondibile che doveva essere russa o ucraina.
Trasalì un
attimo e fissandomi con i suoi occhi penetranti come spot di un laser che ti
colpisce fino al profondo dello spirito, mi chiese in italiano come mai
conoscessi il russo. Le risposi che lo avevo studiato ai tempi dell’università,
del politecnico, che avevo studiato su testi russi di matematica, sul
Demidovich.
“Il
Demidovich! Anch’io ci ho studiato analisi matematica all’università a
Pietroburgo, ma lei è un matematico?”
“No, sono
ingegnere”
“Anch’io
sono ingegnere, ingegnere minerario.”
“Io,
meccanico e nucleare. E com’è che fa la parrucchiera qui a Milano?”
“Sono della
regione del Caspio, ai confini con il Kazakistan, una regione ricca ai tempi
dell’Unione Sovietica.
Quando ero
ragazza ricordo che con mia mamma, con pochi soldi e senza problemi, potevamo
permetterci di andare in aereo ad Alma Ata o addirittura a Istanbul a fare
compere.
Dopo il
liceo ho vinto una borsa di studio alla facoltà d’Ingegneria dell’Università di
Pietroburgo. Sono stati anni bellissimi.
Finiti gli
studi sono tornata al mio paese sul Caspio, ma eravamo precipitati tutti in una
povertà senza speranza. Niente più fabbriche, miniere abbandonate, né ero
riuscita ad ottenere il permesso di lavoro per andare a Mosca o tornare a
Pietroburgo.
Con
un’amica sono venuta in Italia, all’inizio solo per guardarmi intorno.
Poi ho
conosciuto Antonio e l’ho sposato. E ho aperto questo negozio di parrucchiere.”
Così, circa
una volta al mese vengo a passare un’ora da Julia, che mi sistema i capelli e
parliamo di letteratura russa, di Dostojevsky, di Tolstoi, degli autori moderni
o delle differenze di modo di vivere, della situazione politica, in Russia e in
Italia.
Lei mi
racconta delle bellezze del suo paese.
Quando
parla di Pietroburgo le si illuminano gli occhi, quegli occhi celesti di
ghiaccio, eppure così vivi e penetranti e se le parlo di cantieri in
Kazakistan, di Alma Ata, dell’inverno sul Caspio, in quegli stessi occhi colgo
un impercettibile velo di malinconia.
“Forse
prenderò la cittadinanza italiana - Mi
ha detto questa mattina salutandomi, - sono sposata, vivo e lavoro qui da oltre
10 anni, posso ottenerla”.
“Eppure se
non ricordo male, mi aveva detto che ha voluto che sua figlia, pur nata in
Italia, avesse la cittadinanza russa, della sua famiglia”.
Mi ha
guardato con il suo sorriso impercettibile e negli occhi quel velo di
malinconia.
“Alla
prossima”
“Alla
prossima, arrivederci”.
(Milano, 7
novembre 2012)
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