martedì 28 febbraio 2012

Dolcissima Maria.


Uno.

Da: Andrea.Dante@newspaper.it
A: Angela.Bessoni@arche.it
Giovedì 3 ottobre 11.30
Oggetto: sei tu?

Cara Angela, durante una mia ricerca su internet mi sono imbattuto in un articolo di una rivista specializzata sull’ultimo saggio storico di Angela Bessoni. Sei proprio tu l’Angela del liceo, la mia compagna di allora?
Ovviamente, se ho sbagliato persona, la prego di comprendermi e di scusarmi.
Andrea D.

Da: Angela.Bessoni@arche.it
A: Andrea.Dante@newspaper.it
Giovedì 3 ottobre 12.20
Oggetto: R: sei tu?

Sì, Andrea, certo che sono io. La tua Angela. E ho letto di te e molti tuoi articoli. Non ho mai avuto il coraggio o semplicemente la forza di contattarti in tutti questi anni. Trenta dall’ultima volta che ci siamo salutati.
Ricordi? Fu quasi per caso. Tu eri affacciato al finestrino di un vagone letto diretto a Torino. Io avevo appena salutato un’amica che partiva dal binario a fianco al tuo. Non ricordo se ho visto prima io te o tu me.
Non fu un saluto triste. Non immaginavamo che non ci saremmo più visti per trent’anni.
Tu avevi il viso impassibile di sempre, con quella smorfia e quelle prime rughe che ti davano come un aria incazzata. Io ero contenta quella sera.
Non ricordo il perché. Mi sentivo leggera.
Ma ora devo andare. Ho appuntamento con mio figlio fuori al liceo e sono già in ritardo. A proposito, ho tre figli, due maschi e una femmina, Paolo, di 21 anni, Gabriele, di 19 e la piccola Anna, di 16 anni.
Ti prego, ora che mi hai trovata, continua a scrivermi. Continuiamo a scriverci. Ho tante cose da raccontarti e di te voglio sapere tutto.
Ma tocca a me riempire questo buco di una trentina d’anni.
Ti bacio.
A presto.
Angela.

Da: Andrea. D
A: Angela
Giovedì 3 ottobre 22.30
Oggetto: Andrea

Allora sei tu.
Ricordo nitidamente quella sera.
Era un sabato. Già da un po’ non ci vedevamo e mi sei comparsa sul marciapiede all’improvviso. Ho visto di spalle i tuoi capelli biondi ricci di quando non li metti in piega perché non ne hai voglia o tempo.
Mentre guardavo nella cabina un attimo, distratto dal conduttore, ti sei voltata e mi hai chiamato con la tua voce un po’ rauca, un po’ mascolina.
- Andrea.
- Angela, che ci fai qui.
- Tu dove vai?
- A Torino, ho ottenuto un praticantato alla “Stampa”, pensa.
- Così vai a fare quello a cui aspiravi dall’inizio del ginnasio.
- Sì.
- Sei sempre stato determinato. Non ti ha mai fermato nessuno.

Sei rimasta sotto il mio finestrino finché è partito il treno. Ti ho baciato al volo le dita poi ti sei fatta sempre più piccola.
Non ti ho vista voltare le spalle.
Sei scomparsa in lontananza senza andartene.

Ma ora dove vivi, hai tre figli grandi, una sempre impegnata e in movimento come te.
Sei sposata, hai un compagno?
Io, come sai non ho mai lasciato “La Stampa” e qui a Torino mi trovo bene. Ho sposato Mara, ma anche questo lo sai, e abbiamo una figlia, Bianca, come il personaggio del film di Nanni Moretti, che ha 21 anni.
Non vuole fare la giornalista, e nemmeno l’avvocato come Mara.
Studia filosofia, poi si vedrà.
Buona notte Angela, spero che mi rispondi
presto.

venerdì 24 febbraio 2012

Una voce che ride nella neve

Montpellier

Cinque

Si erano fatte le sei .
L’ufficio di Edoardo era a solo un quarto d’ora di macchina dal suo.
Silvana in tutta fretta mise in ordine la scrivania, andò in bagno, chiuse l’ufficio.
Arrivò sotto la prefettura, dove lavorava Edoardo, alle sei e mezza.
Edoardo era lì, davanti al portone.

“Ma che fine hai fatto? Ti ho chiamata almeno due volte in ufficio e quattro sul cellulare. Roberta mi ha balbettato di un tuo collega italiano, di una pratica, ma non sapeva niente. E il cellulare era spento.”

Prese posto in macchina a fianco a Silvana.
Lei lo aggredì:

“Senti Edoardo, sentimi bene. Io sono stufa di tenerti sempre appiccicato!
Sono stufa di questa oppressione.
Sono stufa di ricevere decine di tue telefonate al giorno:
-          Silvana, che stai facendo? Stai lavorando con Roberta? Sei a pranzo? Quando passi a prendermi stasera?-
Ma quando fai tardi tu, ti ho mai chiamato?
Ti ho mai chiesto qualcosa?
Quante volte ti chiamo in un giorno?
E quante volte mi chiami tu?
Certe volte vorrei scappare lontano da sola. Sola!
E basta controllarmi perfino su come educo le ragazze. Io sono un’ottima madre capito?
Capito?”

Edoardo rimase annichilito dalla scenata di Silvana. Lui soffriva moltissimo le sue collere, per fortuna molto rare. Ci stava male, molto male.
Aveva una devozione infinita per la sua donna.
Per Silvana.

“ Perdonami  Silvana. Credimi, non volevo controllarti, lo sai. Ero solo preoccupato del tuo ritardo. Scusami, ti prego.”

Silvana restò in silenzio concentrata a guidare.
Non scambiarono più una parola fino a casa.
Parcheggiarono.
Salirono in ascensore.
Silvana aprì la porta.
Le ragazze erano all’università, si sarebbero ritirate non prima delle otto.

Con un impeto improvviso abbracciò Edoardo e lo baciò, lo baciò con ferocia stringendolo fino a togliergli il fiato.
Lo trascinò per mano in camera da letto.
Lo spogliò.
Si spogliò.
Lo spinse sul letto e pretese l’amore.
Lo pretese violento e ricambiò con violenza, con un energia da farsi male.
Da fare male.
In quel momento era quello che desiderava  da morire.
Per non pensare.

Rimasero spossati. Stesi a letto, sul fianco.
Lei gli dava le spalle.
Lui era stretto a lei da dietro.
Le teneva le mani sui fianchi, le toccava i seni.
Lei sentiva altre mani. Altre dita, morbide come il velluto.
Altre labbra.
Gli occhi le si bagnarono di lacrime.
Edoardo percepì qualcosa.

“Che c’è Silvana?”
“E’ l’emozione. E’ stato bello, Edoardo. E’ stata una bella giornata.
Ho avuto in dono momenti che non dimenticherò mai.
Ora però è meglio che ci alziamo. Stanno per arrivare le ragazze.”

Edoardo non osò parlare.

La legava a Edoardo un affetto infinito. Senza di lui la vita non aveva senso. Senza di lui si sentiva di morire.
Ma quando Giorgio non dava segni di sé, perché all’estero o perché impegnato con il lavoro, lei si sentiva mancare il terreno da sotto i piedi.
Senza Edoardo non poteva vivere, ma senza Giorgio era perduta.

Giorgio intanto era tornato al Thalassa.
Passò la notte lì.

Il mattino dopo fece colazione sulla terrazza guardando il mare.
Il tempo era cambiato. Il cielo si era fatto grigio.
E grigia era la superficie del mare.
Rimase a lungo seduto a pensare. Gli occhi fissi sull’orizzonte.

Verso le due, ripartì in macchina per rientrare a Torino.

Suonò il telefono.
Il cellulare.
Vibrò e suonò.
Silvana era nel suo ufficio, come sempre a quell’ora.
Aprì il cassetto.
Prese il telefonino.
Pigiò il pulsantino verde.

“Ciao, sono in macchina. Sto tornando a Torino.Ti disturbo?”
“Tu non mi disturbi mai”.
“Ti va di parlare? Mi fai compagnia per un po’?”
“Certo. Aspetta, chiudo la porta.”


mercoledì 22 febbraio 2012

Una voce che ride nella neve

Montpellier

Quattro 

Lei gli poggiò la testa sulla spalla.
E lo baciò sul collo.
Fece l’ultimo tiro.
Poi girò il capo.
Soffiò il fumo fuori.
E guardò verso il mare. Increspato di spuma. Blu profondo, coi riflessi d’argento.

Parcheggiarono.
Conoscevano bene il Thalassa, sia Silvana che Giorgio.
Silvana c’era stata molti anni prima in vacanza con Edoardo e le bambine, quando ancora vivevano in Italia.
Ricordò i pomeriggi  a leggere i suoi libri di storia mentre  le piccole nuotavano vocianti in piscina.
Giorgio c’era stato di passaggio una notte d’estate.
Avevano fatto tappa Lui e Mara durante un viaggio verso i Pirenei.

Pranzarono in terrazza godendosi il sole e i colori del mare.
Giorgio guardò per tutto il tempo gli occhi di Silvana.

“Devo immergermi completamente nel  colore dei tuoi occhi. Di nuovo non ti vedrò per molto tempo.
Voglio lasciarmi ipnotizzare, in modo che mi restino fissi nella memoria, e nei miei pensieri, almeno in quelli, io riesca sempre a vederli.
Non voglio più che nella mente mia ne svanisca l’immagine come un sogno al risveglio.”

Silvana, tenendogli la mano,  gli raccontò delle angustie del lavoro. Della sua solitudine, pur con Edoardo che l’amava immensamente e con le adorate figlie.
Del bisogno di lui, di Giorgio, che a volte diventava malattia.
Di lui che non c’era.
Del tempo che era passato.
Del tempo che passava.
Di un momento che non era stato sincrono tra loro, ormai troppi anni fa.
Di una dimensione di vita che avrebbe potuto essere e che non era stata.

“Con te sto bene, Giorgio. E se dura da tanti anni, è bello e basta.”

Salirono all’appartamento di Giorgio.
La camera da letto si apriva su un grande terrazzo che affacciava sul mare.
Il sole cominciava a calare. Il cielo era lavanda, sempre più profondo.

Fecero l’amore, con tenerezza, come si aspettava da Giorgio.
Silvana si abbandonò alle sue carezze e ai suoi baci, come a una sonata romantica per pianoforte solo.
Sentiva le dita, le labbra di Giorgio, adorare ogni millimetro della sua pelle.
E in un crescendo, prima lieve, poi sempre più incalzante, infine, lei prese il sopravvento.
E la sonata diventò una sinfonia.

Il sole, prima arancione, era sempre più rosso sull’orizzonte.

Restarono abbracciati.
La mano di lui sul seno di lei.
I baci di lei sul volto di lui.

Fecero la doccia insieme, come piaceva a Giorgio.
Stettero sulle sdraio in accappatoio, incuranti del freddo, a guardare il tramonto.

Alle cinque ripartirono.
In macchina Silvana riaccese il cellulare.
C’erano sei telefonate: due di Roberta, quattro di Edoardo.
L’ultima pochi minuti prima.

“Edoardo mi avrà cercata. Avrà chiamato Roberta per chiedere dove mi fossi cacciata.
Non ci sono chiamate dalle mie figlie.
E’ meglio spegnerlo di nuovo.
E’ più prudente”

Lungo la strada che li riportava a Montpellier il tramonto divenne crepuscolo, il colore lavanda del cielo si fece blu sempre più scuro. poi viola con striature rosso cupo, poi blu scurissimo.
Sull’orizzonte una fascia verde chiaro. 
Infine rimase  solo una pallida striscia di luce fluorescente lontana, tra l’orizzonte e il mare e il cielo nero.
Il crepuscolo era diventato sera.

Parcheggiarono non lontano dall’ufficio di Silvana.
Giorgio aveva il viso tirato.
Era arrivato.
Era arrivato il momento.

Silvana intuì il suo pensiero.

“E’ sempre così, Giorgio. Ché t’intristisci a fare? Sono anni che va così.”
“Silvana. Un minuto, anzi no,. un attimo, appena un attimo dopo che ti ho lasciata sto già male e sento subito un bisogno struggente di rivederti.
E’ vero, è sempre così.
Ma è sempre così.
E io sto male.”
“Non dire altro. Non dire più niente. Baciami, tesoro mio. Devo andare.”

Uscì.
Giorgio la guardava, immobile.

“Ciao caro.”

Furono le ultime parole che le sentì sussurrare.
Poi lei scomparve dietro l’angolo della strada.

domenica 19 febbraio 2012

Una voce che ride nella neve

Montpellier

Tre

Viaggiavano tranquilli verso  Le Grau du Roi.
La dipartimentale 66 è praticamente deserta d’inverno,
Silvana aveva acceso una sigaretta.
Teneva il gomito del braccio destro poggiato sul finestrino aperto.
Tra le dita, la sigaretta.
Il vento freddo di tramontana entrava portando un odore misto di fumo e di aria di Provenza. Quell’aria particolare, elettrica, che profuma di ozono e di montagna, a pochi passi dal mare.
Giorgio sollevò lentamente la mano dal cambio.
La poggiò su quella di Silvana, rilassata sulla coscia sinistra.
La guardò un attimo con la coda dell’occhio, attento a guidare.
Era bella Silvana. Il viso stanco, velato di impercettibile malinconia, e la sigaretta, le donavano un fascino infinito, a cui Giorgio non sapeva  resistere.
Lei percepì il contatto delle sue dita.
Le dita di Giorgio la facevano impazzire.
Una sua carezza, una sola, con quelle dita morbide, lunghe, affusolate, faceva cadere ogni sua difesa.
Era stato così fin dalla prima volta.
Fremette al contatto del palmo della mano di lui sul dorso della sua. E della punta del medio e dell’anulare sulla pelle della sua gamba attraverso la calza sottile.
E reagì.

“Non ti avrei mai creduto capace di una pazzia del genere.
Venire da Torino per stare con me.
Non è da te.
Ma sai che queste sono le cose che mi fanno impazzire.
La mia vanità va alle stelle.
O, forse, più semplicemente, hai degli impegni qui e allora hai approfittato?”
Disse col delizioso sarcasmo a cui Giorgio era abituato, e che lo faceva morire per lei.

“No, sono venuto per vederti. E’ tanto che non ci vediamo.
Mi manchi, Silvana.
Non sai quanto mi manchi.
E mi piaci quando diventi cattiva, come adesso.
Lo so che è una tua forma di difesa. Vorresti abbandonarti all’emozione e alla gioia, ma non daresti mai a nessuno questa soddisfazione, e allora diventi cinica e cattiva.
Invece so che le tue sono espressioni d’amore. Se non fossi fatta così non mi piaceresti.”

Rideva Giorgio, ma era molto serio.
Silvana ricambiò con uno sguardo ancora più cattivo ed un sorriso:

“Con te non c’è niente da fare, ogni tentativo di provocarti è destinato a fallire.
Non c’è soddisfazione.”

E risero insieme, come due scemi.

mercoledì 15 febbraio 2012

Una voce che ride nella neve

Montpellier.

Due.

Rivedeva i suoi occhi finalmente.

“Quanto tempo, Silvana.”

Lei non parlò. Cercò di sorridergli, di imporsi di essere presente a sé stessa, ma sentiva salire dall’intimo la voglia di baciarlo.
E di piangere.
O di ridere.
Rise.
Non si smentì.
Silvana non piangeva mai.
Comunque mai davanti a un uomo.
Lo abbracciò e rise.
Le braccia di Giorgio la strinsero con forza.
Lo baciò.
Lo baciò a lungo.

“Ci vedono.”
“Chi se ne importa. Sei venuto da me finalmente. Non me ne frega più niente di niente. Sarei disposta pure a morire oggi.
Ora voglio solo stare con te. Mi hai fatto un regalo bellissimo. Abbiamo poche ore, voglio non dimenticarle mai.”
Gli rispose con la voce concitata e alterata dall’affanno.

Lo baciò ancora, disperatamente, come se fosse l’ultimo bacio concesso loro dagli dei.
Un bacio profondo, pieno di passione, fino a togliergli il fiato.
Giorgio fu preso da un senso di eccitata vertigine, la baciava e sentiva di volare. Il profumo della sua pelle lo inebriava. Gli girava la testa. Era felice.
Lui sì. Aveva la presunzione di sapere cos’è la felicità. Di riconoscerla.
Le carezzò il viso.

Entrarono in macchina.
Era una bella giornata di febbraio.
Faceva freddo. Il vento di terra rendeva il cielo terso color lavanda e il sole luminosissimo.
Una luce, forte e delicata nello stesso tempo, accendeva i colori e rendeva sensuale l’atmosfera.

 “Ora chiamo la mia collega Roberta, in ufficio. Le dico che ho avuto un contrattempo improvviso, che mi ha cercata un vecchio collega italiano che aveva bisogno di ricostruire con me una pratica.
Però abbiamo tempo solo fino alle quattro e mezza. Poi devo rientrare. Lo sai che passo a prendere Edoardo in ufficio. Torno a casa insieme a lui.”
“Allontaniamoci da Montpellier, il diavolo ha le corna, tuo marito o qualcuno che ti conosce potrebbe vederci.
Andiamo a Port Camargue.
Ho preso alloggio al Thalassa.
C’è una terrazza sul mare e un tavolo che ci aspettano.”



lunedì 13 febbraio 2012

Una voce che ride nella neve

Montpellier

E’ passato ancora del tempo. Silvana è sposata con Edoardo,  ha due figlie e vive e lavora a Montpellier.  Ha un importante studio di avvocato. Edoardo è funzionario della Prefettura di Montpellier. Giorgio è affermato giornalista a “La Stampa” di Torino. Si sono ritrovati ancora.

Uno.

Mezzogiorno meno un quarto.
Suonò il telefono.
Il cellulare.
Vibrò e suonò.
Silvana era nel suo ufficio, cosa strana.
Di solito a quell’ora era in tribunale, in udienza o per vedere un magistrato, o nel peggiore dei casi, per ritirare o depositare atti.
Aprì il cassetto.
Prese il telefonino.
Pigiò il pulsantino verde.

 “Ciao…”.
“Giorgio…a quest’ora?  Di solito mi chiami più tardi…”
“Sono qui, Silvana.”
“Qui dove?”
“Qui. Sotto il tuo ufficio.”
“Qui?
Cosa ci fai? Quando sei arrivato?”
“Sono arrivato ieri sera. Sono venuto a prenderti.“

Le sembrava vederlo sorridere.
La sua voce aveva il potere di rasserenare Silvana in qualunque condizione di spirito si trovasse.
Se era nervosa, arrabbiata per cose di lavoro, abbattuta per questioni familiari o scossa perché aveva avuto una lite con Edoardo, rara per la verità, sentire la voce di Giorgio le cambiava subito l’umore.
La faceva stare bene.
Silvana trasalì.
Sentì come una voragine aprirsi nel centro del petto.
Un’angoscia profonda.
Violenta.
Improvvisa.
Ma, incredibilmente, la sensazione, pur così violenta, così angosciosa, era bella. Bellissima.
E nuova.
Un senso fisico di beatitudine, di felicità lieve, se così poteva definirla - lei che era stata sempre scettica sul concetto di felicità – e di eccitazione, prima impercettibile, saliva e cresceva ora piano e insieme velocemente dal profondo del suo ventre al petto, aveva la meglio sull’angoscia, e poi, finalmente, raggiungeva la testa, la mente.
Lo sentiva in tutto il suo corpo. In tutta sé stessa.
Sì, Silvana realizzava solo adesso veramente che Giorgio era lì.
Per lei.
Per vederla, abbracciarla, stringerla.
E poi?

“Portarmi via?
No.
Non è da Giorgio fare pazzie.”


Le mancava il respiro.
Non fece in tempo a seguire il corso di questi pensieri. Il corpo agiva per fatti suoi.
Si trovò istantaneamente, quasi senza accorgersene, con il cappotto addosso a correre per le scale, continuando a parlare.

“Ma dove sei?”
“Sono a cinquanta metri a destra del portone, in una Peugeot 407 grigia”.

Silvana era già fuori dall’edificio.

“Ti vedo!”

Il cuore stava per esplodere nel suo petto durante i pochi secondi che impiegò per raggiungere la macchina di Giorgio.
Lui era fuori, appoggiato alla portiera.
La guardava.


sabato 11 febbraio 2012

Una voce che ride nella neve

Una voce che ride nella neve.

Tre

“Si chiamava Marco. Eravamo seduti sul prato ad assistere a un concerto. Con me c’era Rosaria, l’amica con cui ero andata a Bologna per il Festival dell’Unità.
Erano a fianco a noi, un gruppo di ragazzi, probabilmente universitari come noi.
Da come erano vestiti, sembravano autonomi. 
Avevo 22 anni.
Ricorderò sempre quel viso, quei capelli ricci. L’incrocio degli sguardi.
I suoi occhi neri.
I miei occhi blu.
Mi mostrò la lattina di birra in segno d’invito a bere con lui. E sorrise.
E sorrisi.
Una delle rare volte allora, nella mia vita.
Fu tutta magia. Solo magia. Non ero più Silvana. Non la Silvana di Edoardo. E nemmeno la Silvana che conosci tu.
Stemmo un po’ con gli altri. Poi ci appartammo.
Fui io a baciarlo.
Nascosti dietro dei cespugli, facemmo l’amore.
Come solo due giovani impazziti dal desiderio possono fare.
Ci salutammo il mattino dopo. Mi diede il suo indirizzo di Bologna. Studiava filosofia.
Tre giorni dopo salutai Edoardo.
Pensa, mi accompagnò alla stazione.
Raggiunsi Marco a Bologna. Andai a vivere con lui.
Nel salutarmi, Edoardo, disperato, mi disse: “tanto lo so che torni”.
Piangeva.
Di un pianto represso.
Di lacrime dentro.

Fu un amore totale, pieno di passione, forse furono i mesi più felici della mia vita.
Certamente i più pazzi.

Tornai a Torino per dare due esami.
Alla stazione mi aspettava Edoardo.
Devoto.
Disperato.
Pieno di felicità perché mi rivedeva.
Quelle sere facemmo l’amore.
Non chiedeva nulla Edoardo. Mi amava e aspettava.

A Bologna però Marco frequentava un giro di autonomi troppo contiguo a frange, sospette di collusione con il terrorismo.
Gli avevo detto di Edoardo.
E un giorno mi disse: “Silvana voglio che tu stia per sempre con me. Voglio che tu divida tutto della vita con me, anche i miei rischi. Voglio che tagli per sempre con Edoardo. Non posso accettare il pensiero che tu sia legata a un altro.”
Fu un istante.
Tutta la prospettiva di vita mi sfrecciò velocissima nella mente. Come una pellicola che gira ad altissima velocità. Rividi Edoardo. Sentii le sue braccia stringermi, il suo amore forte, ai limiti della violenza, ma che mi faceva impazzire. Guardai Marco, duro nella vita, ma tenerissimo e dolce con me nell’intimità.
“Torno a Torino, Marco.
Torno da Edoardo”. Gli dissi.
Lui urlò. Non lo aveva mai fatto. Non con me.
Sembrava impazzito.
Mi urlò: “Sei una puttana! Una puttana, questo sei!
Vattene! Vaffanculo tu e quello stronzo!”
Io mi voltai.
Non mi seguì.
Andai a casa. Raccolsi le mie cose, poche, nel borsone.
Chiusi la porta.
Lasciai le chiavi alla custode.
Presi il primo treno per Torino.
Dalla stazione, prima di partire, chiamai Edoardo.
Lo trovai ad aspettarmi sul binario al mio arrivo.
Mi strinse forte.
Mi baciò.
Non disse niente.
Andammo a casa sua.
Posammo la borsa e mi portò a cena in un ristorante che amavamo molto, pieno di noi.”

Giorgio si accorse di stringere forte la mano di Silvana, mentre lei raccontava infervorata.
Alterata.

martedì 7 febbraio 2012

Una voce che ride nella neve


Una voce che ride nella neve

Due

Arrivarono sotto i portici di Piazza Castello ed entrarono nel caffè.
L’atmosfera dei caffè piemontesi in inverno è particolarissima. Non la ritroverete in nessun altro posto al mondo, ne sono certo.
Entrando, tra il calore e il profumo della boiserie dell’arredamento, misto a quello della cioccolata calda, un’intensa sensazione di benessere pervaderà progressivamente il vostro corpo, ancora intirizzito dal freddo.
E quel vociare discreto, a voce bassissima, degli astanti seduti ai tavoli, vi fa sentire l’anima avvolta in una morbida coperta.
Anche quel giorno Giorgio provò la stessa sensazione, sotto braccio a Silvana.
Presero posto a un tavolino vicino alla vetrina che dava sui portici.

“Che prendi?”

“Una cioccolata calda, e tu, Giorgio?”

“Anch’io, ma con la panna. Visto che hai spezzato la felicità della mia passeggiata solitaria nella neve, mi consolo almeno con la panna.
Come stai Silvana? Allora, cosa ci fai qui a Torino? Ti mancava l’aria di casa?”

Un sorriso finalmente distendeva i tratti del viso di Giorgio.
 
“Sono qui dall’altro ieri. Mi tratterrò due settimane. Ho un impegno in tribunale.
Ricordi la mia amica Luisa? Le avevo dato una mano per istruire una causa. Adesso si avvicina la prima udienza e mi ha chiesto se avevo voglia di prepararla insieme.
Contavo di chiamarti, Giorgio, ma mi sei comparso davanti prima, travestito da pupazzo di neve.
Quando ho deciso di venire due settimane a Torino, la prima cosa a cui ho pensato è stata che avevo desiderio di rivederti. E che ti avrei cercato.”

Era strano lo sguardo di Silvana.
Lei sorrideva, ma gli occhi tradivano una nota di fondo malinconica.

“Come stai Silvana?”

“Sto bene. Sto bene.”
Ci furono alcuni minuti di sguardi e di silenzio, rotti dall’arrivo del cameriere con le cioccolate fumanti.
Un’impercettibile ombra di sollievo trasparì dagli occhi di Silvana:

“E’ la migliore cioccolata calda di Torino”.

Giorgio cominciò a mangiare lentamente con voluttà la panna mescolata accuratamente alla cioccolata calda nel cucchiaino. Stemperava così il sapore intenso del cacao amaro e ne abbassava la temperatura nel portarla alle labbra. Sorbire la cioccolata calda con la panna così, portarla alle labbra, era più sensuale di un bacio.

“ Giorgio, lo hai capito. Non è vero che sto bene.”

“Problemi con Edoardo?”

“No, figurati. Per lui e con lui non ci sono mai problemi. Anzi, forse le sue attenzioni per me, sempre intensissime, a volte mi fanno sentire oppressa.”

“Silvana, tu ami Edoardo immensamente, da sempre.”

“Sì, ma ciò non toglie che a volte…
…insomma, a volte mi sento…non infelice, non sarebbe giusto. Sento che non so neanche io cosa mi manchi. Ma sento che qualcosa mi manca.
Qualche giorno fa, proprio alla vigilia della partenza per Torino, vedendolo tutto premuroso aiutarmi a preparare le borse, mi venne in mente un amore, anzi, più che altro un’avventura dei tempi dell’Università.”

“Ma stavi già con Edoardo allora.”

“Sì, non te l’ho mai raccontato, ma per alcuni mesi ci eravamo lasciati. Anzi, non proprio. In effetti continuavamo a fare l’amore, ma non stavamo insieme.”

“Uauuu, scoprire che tra te e Edoardo c’è stata una crisi, sia pure lontana, ha dell’incredibile.”

“Ma poi, come vedi sono rimasta sempre con lui. E tu, Giorgio, solo tu sai quanto io debba a Edoardo. Sai che gli devo tutto. Oltre a lui, solo tu conosci questi miei segreti.”

“Sì. E’ Così”

“Insomma, era un ragazzo di Ancona. Lo avevo conosciuto a un Festival dell’Unità a Bologna.”


giovedì 2 febbraio 2012

Una voce che ride nella neve


Una voce che ride nella neve.

(Sono passati un po’ di anni dalla telefonata tra studenti di liceo. Giorgio e Silvana si sono laureati e si sono sposati: Giorgio con Mara, sua compagna di liceo, Silvana con Edoardo, conosciuto più tardi. Giorgio ha intrapreso la carriera di giornalista e lavora alla “Stampa” di Torino, Silvana si è specializzata in diritto commerciale in Francia e lavora in uno studio molto affermato a Montpellier.)

Uno.

Era finita prima.
Era finita prima del previsto la riunione in redazione.
Aveva nevicato mentre erano chiusi nella sala. Dalle finestre, Giorgio, per lenire il tedio che lo prendeva sempre durante le riunioni, contemplava incantato i fiocchi di neve che venivano giù.
Tanti.
Grandi.
Non era in macchina. Sarebbe tornato a casa a piedi. Non era preoccupato.
Anzi, la nevicata, ormai intensa, lo eccitava.
Non vedeva l’ora di finire, essere libero e passeggiare per Torino.
Era finita prima del previsto. Prima di mezzogiorno.
Così lasciò i colleghi organizzarsi per la colazione e uscì.
A piedi.
Come desiderava.
La redazione non era lontana dai giardini di Piazza Castello.
Li raggiunse in pochi passi sotto la nevicata.
Camminava a passi lenti, per cullare i pensieri, solo, silenzioso.
E silenziosa era la città, come sa esserlo solo sotto la nevicata.
La sua giacca a vento blu era ormai tutta bianca.
Così il basco che portava e le sue sopracciglia.
Respirava con il naso l’aria profumata.
Percorrendo felice i viali del parco.

“Ehi!
Ehiiiii!
Ma cosa fai? Il pupazzo di neve?”

Senti la voce gridare alle sue spalle.
Una voce ridente. Cupa e cristallina nello stesso tempo. Sembrava…
Ma no.
Eppure…
…una voce che ride nella neve.
La sua voce.
La sua?

“Scemooooo!
Giorgio!”

“Silvana!”

E rideva. Rideva Silvana.
Era dall’altro lato del viale, sotto una pensilina. Sembrava aspettare l’autobus.
E rideva.

“Ma ti sei visto come sei ridotto?
Sembri davvero un pupazzo di neve.
Sei fradicio, guardati un po’. Hai perfino il naso ghiacciato.”

Non vedeva Silvana da due anni. Da quella volta che era tornata a Torino per qualche giorno da Montpellier.
Lo aveva chiamato.
Si erano visti il pomeriggio per un te. Un incontro molto formale. Tra vecchi amici. Parlarono delle loro vite, di Edoardo e Mara, dei loro figli che crescevano. Del lavoro. Dello studio di Silvana, che funzionava bene ormai. Degli articoli di Giorgio, che lei leggeva sempre. Non se ne perdeva uno.

Lo abbracciò.

 “Scemo. Vieni con me. Andiamo in un caffè. Hai bisogno di una cosa calda. Una cioccolata, dai!”

 “Ma stavo così bene a passeggiare…”
“ Ma allora sei scemo sul serio.”

Si avviarono sotto braccio passeggiando. Silvana si teneva stretta a lui.