Undici.
Manara commentava lo scorrere delle slides sullo schermo.
Stava illustrando a me, ad alcuni altri funzionari della Commissione Europea e
ai Capi del dipartimento salvaguardia ambientale della Polizia francese, l’arma
definitiva contro il traffico internazionale di rifiuti, un colpo
mortale alle ecomafie: il sistema di tracciatura satellitare dei flussi di
rifiuti.
Guardavo lo schermo e i colleghi con la mia solita aria
distratta e indolente. C’erano abituati, a cominciare da Manara. Ma stavolta
ero distratto e deconcentrato sul serio. La mia mente vagava tra quello che
ricordavo sommariamente dei sospetti trafficanti, di cui mi aveva parlato
Chébel, che mi temevano e per questo potevano trasformarsi in un
pericolo mortale per me, e immagini varie, diverse: l’aria delle prime ore del
mattino a Ischia, i capelli di Silvana, il profumo del mare d’estate la sera,
scendendo dal traghetto a Pozzuoli. L’odore
delle angurie davanti ai chioschetti nella brezza notturna.
Le immagini erano interrotte dal pensiero della telefonata
di poco prima: che voleva Nino da me? E Diego Sparagnini? Mancavo da troppo
tempo da Napoli e da quell’ambiente per ipotizzare la più grossolana delle
illazioni. Scacciavo via come si fa con una mosca molesta il pensiero che
potesse esserci un collegamento tra Nino, Sparagnini e le rivelazioni che mi aveva
fatto Chébel.
Ma tra un sole rosso, che tramonta dietro l’Esterel, e gli
occhi di Silvana, irrompeva sempre quell’idea maligna, le parole di Nino, le
parole di Chébel.
“Sono paranoico.
Sono paranoico?
Un po’ lo sono sempre stato.
Ma cosa potrebbe mai volere da me Nino? E proprio ora.
Coincidenza? Forse…”.
Pensavo.
(Continua)