Sei.
Era
successo una sera. Avevamo appena finito una partita del torneo di calcio che
ogni anno l’Azione Cattolica di Santa Chiara organizzava tra i ragazzi
del quartiere.
Avevo 12 anni. Giocavo in una squadra che avevamo chiamato “Artigianedile”, dall’insegna di una bottega di Via Carrozzieri alla Posta. Ci aveva divertito l’idea di prendere un nome a caso.
Avevo 12 anni. Giocavo in una squadra che avevamo chiamato “Artigianedile”, dall’insegna di una bottega di Via Carrozzieri alla Posta. Ci aveva divertito l’idea di prendere un nome a caso.
I
nostri avversari erano dei poco di buono del Pallonetto Santa Chiara.
Era stata una partita molto scorretta. Ci avevano riempito di calci, gomitate, spallate e sgambetti. Nonostante tutto, avevamo vinto 2 a 1. Io avevo fatto un’entrata regolare in scivolata nell’area avversaria e avevo rubato la palla a un difensore. Lui si era buttato a terra, ma si era beccato l’ammonizione per simulazione. Da quell’azione era venuto il goal della nostra vittoria.
Era stata una partita molto scorretta. Ci avevano riempito di calci, gomitate, spallate e sgambetti. Nonostante tutto, avevamo vinto 2 a 1. Io avevo fatto un’entrata regolare in scivolata nell’area avversaria e avevo rubato la palla a un difensore. Lui si era buttato a terra, ma si era beccato l’ammonizione per simulazione. Da quell’azione era venuto il goal della nostra vittoria.
Tornavo
verso casa salendo via Santa Chiara, era ormai buio. Dietro di me, a qualche
decina di metri camminavano cinque ragazzi della squadra che avevamo battuto.
Sentivo il loro vociare.
Camminavo
piano, mi facevano male le gambe. Poco a poco mi raggiunsero. All’improvviso
tre di loro mi superarono, mi sentii afferrare da dietro dagli altri due. I tre
si girarono, mi vennero addosso e cominciarono a prendermi a pugni e a
schiaffi. Strattonai per liberarmi e reagire, ma erano troppi. Dopo avermi
riempito di pugni, mi gettarono a terra e mi presero a calci.
Andandosene,
mi urlò quello a cui avevo tolto la palla:
“Accussì
te’mpare. Avimm' perzo pe ‘mmeza toia. Strunzo!”
Restai
a terra dolorante. Stavo cercando di rialzarmi, quando sentii un qualcuno
avvicinarsi. Si chinò e mi sollevò la testa delicatamente.
Era
‘o bbarone.
“Ué,
bbaro’…” dissi a fatica.
“Calmate,
‘o frà, rispira chiano, nunn’è nniente, é sul’acchiappato ‘na paliata.
Cinch’erano
troppi. Ma nun te preoccupà, é 'ttenimme fatte. E’ ssule quistione d’é 'cchiappà a uno a uno, à ssule.
Si l’avessero fatto a mmé, s’à vedevano cu cchesta.”
Si l’avessero fatto a mmé, s’à vedevano cu cchesta.”
E
mi mostrò la “molletta”. Fu la prima volta che vidi il suo coltello a
serramanico. Quello che adesso era nel palmo della mia mano.
“
‘O fra’, t’aggi’à ‘mparà a avé à cche ffà cu chella ggente.”
O’
bbarone abitava ai Banchi Nuovi, nel mio quartiere. Non ho mai saputo il suo
nome, era ‘o bbarone e basta. Lo conoscevo da quando avevo sei anni. Aveva
sempre fatto il ladruncolo. Rubacchiava dalle bancarelle, da piccolo. Poi era
passato a rubare nelle auto. Tutto quello che per distrazione i proprietari
potessero aver dimenticato: soldi, sigarette, preservativi, crick, qualche
volta la ruota di scorta. Se andava bene, lo stereo.
Così,
mi insegnò a difendermi, a fare “a mazzate”, a dare capate “é primma”, e infine
a usare il coltello. Mi insegnò a usarlo per intimidire l’avversario non troppo
pericoloso, a colpire per primo l’avversario pericoloso, a colpire brutto l’avversario
infame, più grosso e meglio armato.
Per
fortuna non mi erano mai serviti i suoi insegnamenti in scontri fisici. Era
bastato avere appreso l’attitudine a farsi rispettare per trasmettere un forte
messaggio deterrente, e questo in più occasioni, anche da adulto e in età
matura.
Imparai
anche che con certa gente devi colpire per primo, un solo colpo, violentissimo,
unico, risolutivo, one shot, come dicono gli americani, e che se non colpisci
tu, è pura illusione pensare che difendendosi, alla lunga, si scoraggi il nemico
e lo si neutralizzi.
‘O
bbarone, Aitano cap’é mbomba, contiguità di amicizie. Ragazzi border line, come
si dice adesso, ma leali e generosi. Pronti a prendere mazzate per difendere un
amico.
Guardavo
la molletta nel palmo della mano, pensavo a loro, ai miei anni di ragazzo.
Poi
andai al liceo, ancora nel quartiere, poi all’università, poi via, all’estero.
E
ora eccolo qua il funzionario della Commissione Europea, raffinato, colto, fine,
“signore”, dalle origini napoletane. Con la fama di duro contro i crimini
ambientali e il traffico di rifiuti.
Avevo
bene in mente quello che mi aveva rivelato il capitano Chébel. E capivo
benissimo cosa voleva dire. Certo, la protezione a distanza dei Servizi, certo,
più avanti, la scorta, ma sapevo perfettamente verso quale destino avevo
cominciato a viaggiare. Mi confortava ancora non correre rischi di ricatti o di
vendette trasversali contro persone a me care. Semplicemente perché non ne
avevo più e i figli erano dall’altra parte del mondo.
Se
ero finito nel mirino di organizzazioni camorristiche, non avevo scampo.
Facevo
queste riflessioni con calma e freddezza, come se riguardassero un'altra persona.
Guardai
ancora una volta la molletta nel palmo della mano.
Ci
giocherellavo, la feci saltellare.
Feci
scattare la lama. Lucida, brillante.
La
impugnai come mi aveva insegnato ‘o bbarone. Rinserrai il coltello.
Lo
riposi nel cassetto, sotto le camicie.
(continua)